14 marzo 2000
La storia Inferno blu
In Madagascar è sorta dal nulla una città di 100 mila abitanti. In cerca di zaffiri. E di un sogno di riscatto
di Mauro Gavillucci
Foto di Fabio Braibanti
Soalaza ha lasciato i suoi 7 figli in un villaggio al di là della bosaka, la savana malgascia che circonda Ilakaka, la città nata dal nulla. Ha speso quel poco che aveva per comprare una pala, un setaccio e una robusta corda per calarsi nel buio delle buche-miniere alla ricerca dello zaffiro. Sono 4 mesi che lavora 12 ore al giorno, senza rinvenire nulla, solo laterite, la terra rossa che copre gran parte del Madagascar. L’abbiamo trovata febbricitante, adagiata sul lettino dello studio medico (una baracca di 15 mq che funge anche da abitazione) del giovanissimo dottor Roger Ramaniraka: “Ha il tifo. Ho mandato un conoscente ad avvisare il marito” sentenzia il dottore. “Oltre al tifo, le malattie più diffuse sono la dissenteria, la febbre da paludismo e l’HIV”. Ma per lui e per gli altri quattro medici in prima linea ci sono anche altre urgenze: “A causa della diffusa prostituzione”, prosegue Ramaniraka, “le malattie veneree come la gonorrea e la sifilide causano in media tre decessi al mese e di pari passo aumenta la sieropositività”. Ramaniraka viene da Antananarivo, la capitale. Come altre migliaia di persone ha seguito il flusso: l’esodo più eclatante nella storia del Madagascar, l’Isola Rossa. Abbiamo scoperto Ilakaka casualmente. Anche il nostro autista, Benoit Leon Tsarafiasy, ne sapeva poco o niente. Sulla statale 7, fra i Parchi Nazionali di Zombitse Vohibasia e Isalo, al posto di un pugno di tetti coperti da foglie di palma, in pochi mesi è sorta una città di 100 mila anime. Ilakaka è la nouvelle frontière delle pietre preziose. L’Eldorado dello zaffiro. La speranza del riscatto sociale. I contadini dell’intera regione hanno lasciato i campi, venduto gli zebù (bene prezioso e primo simbolo di potere per le tribù del Sud), abbandonato le famiglie, dimenticato le tradizioni e, al soldo del GFI – il Group Felapeso Ilakaka, la società esclusivista della concessione – stanno trasformando l’intera vallata in un colabrodo. Migliaia di buche di diametro variabile dai 50 cm ai 100 metri hanno reso il paesaggio lunare. La confusione, i brusii, le grida, i fremiti sono ovunque. Case di legno lillipuziane si alternano a bazar, hoteli (dei mini ristori), bar, alimentari, botteghe di parrucchiere e barbieri, discoteche, night, officine, ristoranti e alberghi che per 1.500 lire ti danno un giaciglio. Tutto in miniatura, approssimativo. Volatili che pigolano tra i rifiuti, toilettes a cielo aperto grandi come campi da tennis. Macellerie e pescherie avvolte da un nugolo di mosche, col sangue che si riversa sulle strade, nei vicoli di laterite, inzuppando le scarpe e i tanti piedi nudi. I più disperati vivono in capanne alte un metro, di rami e foglie di palma, circondate dalle buche killer che inghiottiscono vite e aspettative. Il fiume che scorre nel mezzo di questa umanità lava i corpi, accoglie i rifiuti, rinfresca dal torrido caldo tropicale. Soprattutto è essenziale per lavorare di setaccio, sperando nell’apparizione del “vatomanga”, la pietra blu, quella che, solo lei, nascosta nel cappello, ti darà la ricchezza. Un grammo di zaffiro blu ha un prezzo di mercato di 5 milioni di lire e i minatori per contratto devono consegnare le pietre agli operatori della Felapeso, che come avvoltoi controllano dai bordi delle buche, scrutando e incitando i ricercatori. Chi fa il furbo rischia grosso: anche la vita. I 14 mila minatori di Ilakaka guadagnano 10 mila franchi malgasci (Fmg) al giorno, poco più di 3 mila lire. La sicurezza sul lavoro è un optional. Madame Angel, una signora con lo sguardo dignitoso, afferma che sotto le gallerie ogni giorno muoiono 5 persone. La direzione peraltro non dirama bollettini in merito, mentre i giornali, anche criticando l’atteggiamento del governo, non danno particolare risalto alle morti bianche. Stime ufficiose parlano però di 10 decessi al mese. “Mio figlio Honorè aveva 3 anni. La sera del 20 agosto è caduto in una buca e da allora sono terrorizzata. Gli altri 5 figli li porto a lavorare con me, così se troviamo una pietra grande la rivendiamo al mercato nero e potremo lasciare la capanna per affittare una vera casa. Altrimenti impazzisco. Ogni notte sogno di sprofondare, di essere inghiottita dalle buche”. La nostra guida traduce il racconto di Adeline Soamihari, gli occhi allucinati, la fronte aggrottata, il naso grosso e schiacciato. È una Bara, la tribù fiera e guerriera di origine Bantu che combattè i Merina, che nel 1819 erano riusciti a unificare le 18 etnie malgasce. Leonard Rasolofalimanana è uno dei pochi sindacalisti dell’associazione di minatori denominata Vatomanga, che per statuto è impegnata a rispettare sia i codici minerari che l’ambiente. Vatomanga ha l’obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro, facendo pressioni sul governo, invitandolo ad aumentare la tassa che i concessionari pagano allo Stato per ogni grammo di preziosi estratti. Quella attuale, introdotta dai francesi oltre un secolo fa, prevede un balzello di 400 lire a grammo, quando mediamente un grammo si vende all’ingrosso a 2 milioni di lire: ovvero 5 mila volte il valore della tassa. Una campagna giornalistica punta il dito sulle connivenze che il Presidente della Repubblica Didier Ratsiraka (appassionato collezionista di zaffiri) e i suoi più stretti collaboratori hanno con la Felapeso. Conti alla mano la GFI ha fatturato fino a oggi almeno 1.500 miliardi di lire. “Se fosse tassata equamente, con quei soldi potremmo costruire strade, dare a questa disgraziata comunità acqua corrente, servizi igienici, scuole, un ospedale”, fa notare un osservatore, “e aprire, dopo 10 anni che se ne parla, un istituto di gemmologia per insegnare ai ragazzi malgasci l’arte del taglio dei preziosi, per ora appannaggio di asiatici”. Dopo l’esaurimento dei giacimenti di Ankarana nel nord e di Fort Dauphin nel sud è stato proprio un orientale, un ingegnere thailandese in perlustrazione nelle regione di Tulear, a scoprire il filone di Ilakaka. L’articolo 79 della legge 95.016 recita che “Le concessioni minerarie vengono rilasciate esclusivamente a cittadini fisicamente e moralmente malgasci”. Se è vero che la Felapeso è presieduta dal neo insediato Bellarmain Raveloarijaona, malgascio doc, di fatto è totalmente controllata da thailandesi e sri-lankesi. Anche gli 80 banchi di vendita su cui avvengono le transazioni sono in mano agli asiatici, con qualche eccezione solo per fare posto a intraprendenti mediatori sud-africani, francesi, russi e bulgari. Mentre il mercato sommerso gestisce un volume d’affari 2 volte quello ufficiale. Nel bailamme che ti avvolge, è normale essere avvicinati da contadini-minatori che tentano di venderti qualche pietra, mimetizzata all’occhio del padrone. Cecilien Ratiorisan, giornalista del quotidiano National, scrive: “La pietra blu, per ora, è un business miliardario per governativi senza scrupoli che coprono i malaffari di venditori e acquirenti asiatici, africani ed europei. L'”occhio di gatto” o “fiore di prugna”, come è stato ribattezzato lo zaffiro, è l’oggetto del desiderio. Non è facile scoprire cosa c’è dietro, è pericolosissimo. Non esiterebbero a minacciarti”. Sylvain Ravaivao, un allevatore della zona, ci racconta che laggiù vicino al ponte le fanciulle si facevano il bagno riparate dai roseti. Lui ci portava i suoi zebù a rinfrescarsi. Sembra che parli di un’altra epoca, di un tempo andato, in realtà non sono passati che una manciata di mesi. “Quelli del mio villaggio che hanno guadagnato tanto per comprarsi uno zebù, si contano sulle dita di una mano”, ci confida Rasolo, un contadino di Beroroha. In questa Babele del terzo millennio il caos è la regola. I poliziotti chiudono un occhio intascando una pietruzza, o accettando una pistola o un fucile per mantenere il disordine e l’anarchia. E oltre ai morti nelle miniere ci sono quelli che muoiono per i “regolamenti di conti”. In questo universo compresso in soli 25 kmq, sono concentrate tutte e 18 le etnie malgasce, oltre ai disperati provenienti da Guinea, Costa D’Avorio, Mozambico, Etiopia, Mali. Alcuni di loro dopo l’assalto al Parco Nazionale dell’Isalo sono stati ribattezzati i “minatori-banditi”. Free-lance dello zaffiro, sbandati e non associati, che scavano ovunque in barba alle leggi che regolamentano l’ambiente. È ovvio che dietro questa povertà c’è lo zampino dei boss del mercato parallelo. Boss che probabilmente hanno i giorni contati. Oltre che dall’aumento delle tasse e dalla sindacalizzazione della mano d’opera, sono minacciati da potenti associazioni ambientaliste. Per esempio i 60 ettari del Parco di Zombitse-Vohibasia sono iscritti nella lista del “Global 200” e l’area è stata scelta dal WWF per la campagna “Pianeta Vivente”. 100 km a sud di Ilakaka c’è un altro luogo della speranza e della disperazione, Antaralava. Il segretario generale per lo Sviluppo ha dichiarato alla stampa: “Il triangolo Ilakaka, Andranondambo, Sakaraha che copre una superficie di 12 mila kmq trabocca di pietre preziose. È l’occasione per il Madagascar di uscire dal baratro economico”. Il nome zaffiro deriva dall’ebraico sappir che significa “la più bella cosa”. E la pietra blu intenso potrebbe essere davvero la più bella cosa per questo popolo. Il presidente Ratsiraka potrebbe azzerare il debito pubblico del suo paese proprio grazie all’oro blu.
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