Diario di Graziella, viaggio in Madagascar di luglio 2014

VIAGGIO IN MADAGASCAR, 19 LUGLIO – 1° AGOSTO 2014

Il viaggio non finisce mai, ma si ripete infinite volte negli angoli più silenziosi della mente (Pat Conroy)

Dopo due anni dal viaggio ho ripreso in mano gli appunti che avevo scritto alla fine di ogni giornata e dalla carta fisica li ho trascritti sulla carta virtuale.

E’ stato come rivivere, un passo dopo l’altro, lo stesso viaggio per la seconda volta, con la stessa curiosità, emozione, intensità.

Non avevo ancora detto il mio grazie di cuore ai compagni di questo viaggio

A Haja e Julienne che in silenzio ma col sorriso ci hanno accompagnato ogni giorno come angeli custodi.

A tutte le persone che abbiamo incontrato e ci hanno aperto il cuore.

A Giangi, instancabile, così curioso, concreto, operativo.. così entusiasta, sempre!

A Elide, precisa, premurosa, attenta e generosa. E desiderosa di incontrare e comprendere gli altri.

Grazie anche a Irene e Aldo per essersi fatti coinvolgere in questa esperienza indimenticabile. Grazie soprattutto a UnicoSole. Grazie di cuore per aver offerto a me a alla mia famiglia questa splendida opportunità. Grazie perché il Madagascar ora per me non è più solo una terra come le altre sulla carta geografica e nemmeno un racconto, ma è luoghi e persone con nomi volti e storie.

Grazie a UnicoSole soprattutto che quello che ci consente di fare per loro, insieme a loro.

Tornerò!

Sabato, 19 luglio

Puntuali alle 5 siamo all’appuntamento all’aeroporto di Milano Linate noi tre Biondo, Aldo Irene ed io, e Elide e Padre Giangi. E’ sabato e c’è moltissima gente in partenza per le vacanze, al punto che facciamo il giro di tutto l’aeroporto senza trovare nemmeno un carrello. Sonja che è stata in Madagascar l’anno scorso è venuta all’aeroporto per salutarci e per darci della cioccolata da portare ai ragazzi della casa famiglia. Ognuno di noi 5 ha i due bagagli 23 kg da stiva + bagaglio a mano da 12 kg: portiamo giù anche una pompa per Ihosy che da sola è un collo

Check in, passaporti, controlli, tutto fila liscio. Arriviamo a Parigi in orario e facciamo anche un giro nell’attesa dell’imbarco. L’aereo è pieno. A noi tre assegnano i posti nella fila centrale davanti a quella riservata ai bambini piccoli. Elide è nella fila laterale, posto al centro, fra una mamma e una bambina, e padre Giangi da un’altra parte ancora. Il tempo trascorre fra film, cibo e qualche dormita, e finalmente in orario atterriamo a Antananarivo. Scendiamo dalla scaletta e a piedi entriamo in aeroporto. Una folla, cioè tutti i passeggeri dell’aereo, si accalcano senza ordine ai controlli passaporti dove una filiera di funzionari si suddivide il lavoro: chi lo ritira, chi lo timbra, chi controlla all’unico terminale. Una volta consegnato il documento, si passa alle spalle dei box dove gira l’unica serpentina del ritiro bagagli e si aspetta di essere chiamati per la restituzione del passaporto. Conquistiamo le valigie dopo aver contemplato un numero infinito di giri del nastro bagagli con la gente che tira giù bagagli enormi. Con tre carrelli stracarichi e una valigia a traino passiamo la dogana lato “nulla da dichiarare” con padre Giangi come lasciapassare. Nell’atrio ci aspetta Haja: mi sembra di conoscerlo da sempre. Saluta anche noi “nuovi” come se rivedesse persone care dopo una lunga separazione. Ci aspetta anche Michel, il presidente dell’associazione Rainay, sarà con noi per tutto il viaggio. L’uscita sulla strada sembra la banchina della metro nell’ora di punta, quando si aprono le porte e non si riesce a scendere. I saluti pieni di calore proseguono quando appena fuori troviamo anche Franza e Nirina venuti da lontano ad accoglierci. Tutti insieme ci dirigiamo verso il parcheggio con un codazzo di ragazzi che ci aiuta a portare i bagagli e noi neofiti nella confusione generale non riusciamo a distinguere chi è dei nostri e chi no. Aldo dà uno spicciolo a una donna con un neonato in braccio e a quel punto tutto un gruppo di gente ci insegue chiedendo soldi e caramelle. L’insistenza africana davanti alla quale non bisogna cedere?

Caricati i bagagli su un pulmino, 3 valigie per ciascuno dei 5 che siamo, noi donne saliamo sul pullmino a fianco. Siamo stanche e assonnate. Gli uomini scompaiono e non sappiamo perché. Ricompaiono dopo un tempo lunghissimo: la fila per il pagamento del parcheggio ha richiesto un’ora! Haja che si pronunzia Aza si mette alla guida. Ci accompagnerà per queste giornate fino a a Fianarantsoa. Senza un mezzo a disposizione qui non è pensabile muoversi.

L’albergo dista tre quarti d’ora e attraversiamo la città buia. Il cielo nella parte rovescia del mondo è a rovescio anche lui e la luna di stanotte è tagliata a metà in orizzontale.

L’hotel è modesto e il personale non sembra entusiasta di vederci. Le nostre camere sono al secondo piano e dobbiamo portare su a piedi le valigie perchè non ci sono ascensori. Il letto un po’sbilenco ha un baldacchino artigianale col tulle e per Irene è stato preparato un materasso per terra.

Manca poco alle tre: domani colazione alle 7, poi messa da Padre Pedro.

Dopo tanti viaggi seguiti a distanza, letti sulla carta e immaginati col cuore, i miei occhi finalmente vedono!

Domenica, 20 luglio

Alle 7 colazione in un baretto dietro l’albergo. Padre Giangi legge e commenta il vangelo di oggi dato che la messa sarà ovviamente in malgascio. Aldo dice a tutti di essere non credente.

Mentre mangiamo, la televisione accesa trasmette musica e cori religiosi. La domenica qui è una festa molto sentita, le persone non lavorano e anche la programmazione è coerente: improvvisamente mi ricordo quando ero piccola era così anche da noi, ad esempio in quaresima.

Ci raggiungono Haja, Franza e Nirina che si uniscono alla nostra colazione, anche se la loro è a base di riso e carne. Padre Giangi e Franza, che ha preparato un disegno tecnico, discutono della costruzione del liceo di Tsarasafidy e dei prezzi analitici in preventivo. Nessuna decisione viene presa. Bisogna incontrare il sindaco del comune di Tsafaridy.

Intanto Haja ha cambiato i nostri euro in ariary e padre Giangi ne tiene una parte per la cassa comune, mentre degli altri fa la prima distribuzione. Sono dei veri e propri malloppi: 1 euro vale circa 3.000 ariary!

Ci congediamo da Franza e Nirina che rientrano nella loro città e noi ci avviamo da Padre Pedro, dall’altra parte di Antanarivo. Per noi oltre a essere la prima volta in Madagascar, è anche la prima volta in Africa! Nonostante sia domenica e quindi ci sia meno traffico, la confusione è tanta. La gente vestita a festa cammina lungo le strade che a destra e sinistra sono piene di bancarelle e negozietti che si affacciano sulla lalana (la strada) da una finestra, e hanno le insegne disegnate direttamente sul muro. Si vende di tutto, ma soprattutto verdura e frutta: carote pomodori cavolfiori insalata e un tubero bianco tipo il rafano, banane mandarini papaia. Chi offre poca merce e chi molta: l’economia è di sussistenza e quindi ognuno vende le quantità di cui dispone. Le macellerie espongono carne di zebù tagliata in grossi pezzi, mentre i polli razzolano vivi perché vivi devono essere venduti. Sono sorpresa da queste abitudini così diverse…ci sono le panetterie e non mancano i cibi di strada preparati su fornelli accesi in pentoloni di alluminio fumanti. A lato delle strade a destra e sinistra ci sono fossi profondi per raccogliere l’acqua quando piove.

Le case sono di mattoni rossi e rosso il colore del terreno. Non a caso il Madagascar si chiama Isola Rossa

In cima a una salita, dove la strada assume un aspetto più ordinato, c’è Akamasoa.

Quando arriviamo la messa è già cominciata: era alle 8.30 e non alle 9 come sapevamo noi. Mentre entriamo una persona registra la nostra presenza come Unicosole e Padre Colombi. Dalla grande palestra dove stanno celebrando la messa giunge un coro come una perfetto come una voce sola, ritmato dai tamburi. Ci sediamo su una panca che troviamo libera appena entrati, sotto l’altare posto sulla pedana rialzata. Davanti a noi 4 ragazzi suonano i bongo, uno la chitarra elettrica e uno una tastiera.

Sui quattro lati, anche dietro l’altare, le gradinate sono piene di gente. Padre Pedro è in viaggio all’estero e la messa è celebrata da un altro sacerdote bianco, anziano e canuto. Una folla di chierichette sono con lui sulla pedana insieme al coro. Padre Giangi ci spiega l’omelia e traduce le parole dei canti che sono tutti di ringraziamento a Dio. Quando finisce l’omelia la gente applaude!

Ci sono bambini, di tutte le età, alcuni seduti composti al centro della palestra poco distanti da noi, altri più piccoli scorazzano avanti e indietro. Indossano abiti che vengono dai paesi ricchi e che raramente sono della taglia appropriata. La folla enorme seduta per terra al centro della palestra sembra fatta solo di bambini, ma ad un certo punto, con un ordine armonioso, si alzano per danzare anche le mamme, nascoste in mezzo a loro.

Un uomo entra e esce passando velocemente davanti a noi e va a dare un colpo sulla spalla di uno dei ragazzi che suona. La scena si ripete più volte e alla fine l’uomo si piazza davanti ai suonatori. E’ evidente che è una persona con problemi, ma i ragazzi non lo scansano e nemmeno sembrano infastiditi dalla sua presenza. Ci sono anche altri personaggi strani ma nessuno li esclude o li evita. Sembrano integrati e parte anche loro della comunità.

I canti intervallano continuamente la messa animati dalle danze: uno spettacolo ben preparato! Tutti fanno armoniosamente movimenti coordinati. Una vera comunità.

La comunione viene distribuita da parecchi diaconi, sia uomini che donne.

Al termine della messa una donna, che mi sembra la segretaria generale del villaggio, legge lunghi e interminabili avvisi mentre un assistente continua a sottoporgli nuovi documenti da leggere (sembra la parte finale delle udienze del papa!): la promozione di oltre 800 bambini delle elementari; il saluto di Padre Pedro; l’organizzazione della prossima messa domenicale, animata a turno da un quartiere diverso; i saluti ai gruppi presenti oggi, noi compresi; le attività a seguire subito dopo la messa.

Assistiamo infatti a una breve sketch dei ragazzi che rappresenta i problemi degli adolescenti che vogliono provare stili di vita diversi dai valori tradizionali proposti dalla famiglia. Nessuno sembra avere voglia di andare via: la messa è una vera festa e la sua durata non pesa.

All’uscita Elide consegna alla segretaria generale il contributo di Unicosole alla comunità di Akamasoa, e Padre Giangi saluta in malgascio molte persone. Ci presenta una donna battezzata da lui oltre 20 anni fa e che ora è nonna di un bambino. La gente si avvicina e ci tende la mano sorridendo. Tutti vogliono salutare e lo fanno con naturalezza e calore, come se ci conoscessero personalmente.

Ci mostrano gli edifici di uso comune. Prima di ripartire approfittiamo delle latrine a secco che Elide apprezza molto e vorrebbe in tutte le scuole che Unicosole costruisce.

Intanto Haja ci ha procurato le schede telefoniche malgasce che ci consentiranno di comunicare con l’Italia a prezzi assai più convenienti del roaming.

Tappa successiva il mercato: in un capannone in fondo c’è l’artigianato, e acquistiamo qualcosa di paglia, sia per noi, sia per i mercatini della nostra associazione. Qui la contrattazione è un must e io non sono affatto capace, oltretutto non ho la misura della moneta nè tantomeno dei prezzi. Mentre compriamo le banane, i venditori dell’artigianato ci inseguono per offrirci gli animaletti in pietra al prezzo che avevamo proposto e avevano rifiutato. Compriamo anche dei mandarini che assaggiamo subito sul pullmino: sono più bombati dei nostri e leggermente più aspri.

Torniamo verso l’albergo, al baretto della colazione per pranzare a base di riso e carne e poi rientriamo in albergo inseguiti da bambini che chiedono con le manine tese.

Prepariamo gli scatoloni che Haja ci aveva procurato ieri sera. Scopo dell’operazione: separare le cose da tenere con noi, in questi primi giorni di viaggio, da quelle che possiamo intanto mandare a Fianarantsoa con il taxi brousse. Le valigie vuote le lasceremo qui in città e le recupereremo l’ultimo giorno. Non è difficile: ci impieghiamo poco.

Andiamo cosi al mercato dell’artigianato a la digue, di fianco un corso d’acqua: per vederlo bisogna salire sugli argini. Alcune donne hanno lavato e steso il bucato: il clima infatti è tiepido e il cielo e sereno. C’è anche una mucca solitaria che pascola e Irene vuole una foto vicino a lei.

Oggi che è domenica siamo praticamente gli unici clienti e diverse bancarelle sono chiuse.

I negozietti sono allineati sul solo lato della via opposto agli argini, e vendono più o meno tutti le stesse cose: spezie, oggetti in legno, pietre dure, paglia, osso. Gli acquisti sono una faccenda divertente. Guardiamo, scegliamo, contrattiamo (meglio, contrattano…). In pochissime battute Irene diventa espertissima. I venditori ci inseguono da una bancarella all’altra portandoci tutto quello che chiediamo e che vanno a procurarsi da altri, se non lo hanno a disposizione. Un ragazzetto chiede a Irene di dargli le scarpe che indossa in cambio dei suoi sandali: cominciano a giocare e scherzare per tutto il tempo, fino a che non risaliamo sul pulmino carichi di ogni bene.

Continuiamo a attraversare per la città e io continuo a non orientarmi minimamente, a volte mi sembra di riconoscere un posto già visto, invece siamo completamente da un’altra parte. Zone più povere e zone apparentemente benestanti, abitazioni misere e palazzi, un contrasto stridente e costante. Colpisce il fatto che molto è costruito sulla terra nuda per essere calpestato da piedi nudi: io non vedo che miseria, mentre per loro è tutto naturale come la vita.

Prossima tappa Padre Noè, al quale lasceremo in custodia le valigie vuote fino al giorno della partenza. Abita vicino all’aeroporto e mentre svoltiamo in direzione della sua casa notiamo l’indicazione di una setta: Giangi dice che ce ne sono moltissime in tutta la città e in tutto il Paese.

Varcato il cancello il panorama cambia: sembra un’oasi. Un giardino ben curato con una boungaville prorompente a formare un arco, e la palma del Madagascar, la prima che vedo. Ci accoglie suor Giuseppina che vive qui e ci mostra la stanza dove lasciare le valigie. Che sarebbero rimaste li completamente vuote se non avessimo fatto già acquisti e cosi le depositiamo riempite.

La stanza si apre su un cortile interno separato dal resto da un cancello attono al quale si aprono diverse camerette come la nostra, con un letto e un tavolino: Padre Noè ospita molte persone, data appunto la prossimità all’aeroporto.

Ci racconta la sua scelta di rimanere ancora qui nonostante i suoi anni (ho l’età del Papa, dice) perchè in Italia farebbe al massimo il parroco in pensione, mentre qui si dà ancora tanto da fare e si sente utile. Vuole avviare una scuola di cucito per aiutare le mamme bambine, tredicenni o poco più che vivono sulla strada. Sta anche ampliando la scuola con due nuove aule. Qui si costruisce in fretta, un mattone sopra l’altro, e per la riapertura della scuola, a ottobre, saranno pronte. Ha un forno nel quale ogni giorno prepara un panino per ogni bambino. Mi costa, dice, ma non ci rinuncio. Lo salutiamo e ci congediamo: quando ripasseremo lui non ci sarà.

Per cena abbiamo appuntamento con Bruno (Brunò, alla francese) al ristorante Le Cantilene. Il locale è di proprietà del figlio di un deputato. Mentre aspettiamo il nostro ospite e leggiamo il menù, approfittiamo del wifi gratuito, cosa che non accadrà più per tutto il viaggio, per comunicare con l’Italia. Siamo in 6 con Haja più Bruno, almeno cosi pensavamo. Bruno arriva con la moglie, ma prima di lui arriva il deputato. Abbiamo così il primo contatto con l’arte oratoria malgascia: il rituale prevede innanzitutto il ringraziamento a Dio e poi agli ospiti, con parole che nella nostra cultura suonerebbero retoriche, mentre qui sono indispensabili prima di procedere con qualunque argomento.

Anche noi dobbiamo presentarci uno per uno, ma non so se anche questo sia richiesto dal protocollo malgascio oppure da Padre Giangi. Approfittiamo della sua presenza per avere un giudizio sulla situazione del Paese dopo le recenti elezioni politiche. La grande attesa è stata delusa e il popolo si è sentito tradito. Al presidente della transizione, Rajoelina, non è stato consentito di candidarsi, lui che era vicino al sentimento della gente. Il nuovo Presidente invece è distante: quando visita le città malgasce non trova nessuno ad attenderlo. E’ stato eletto perchè sponsorizzato dai Paesi interessati ad ottenere le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime e il parlamento sta rivedendo il sistema di attribuzione delle concessioni stesse. Il governo non ha un programma. Il Fondo monetario internazionale ha assegnato i fondi al Madagascar ponendo però delle condizioni.

Bruno e la moglie raccontano dei figli che frequentano l’università all’estero, in Indonesia, e infine Bruno ci propone l’idea di una fondazione italo malgascia per sostenere i giovani. E’ una cosa da studiare e approfondire sulla base del diritto malgascio.

Quando usciamo, appena fuori dal ristorante troviamo un gruppo di ragazzi che giocano a domino per terra usando un cartone come tavolo, e Giangi si ferma a scambiare con loro due parole. E’ un mondo così diverso…

Riaccompagniamo a casa gli ospiti con il nostro pullmino 9 posti e poi torniamo in albergo. Non è molto tardi ma la sveglia in Madagascar suona sempre presto: bisogna fasarsi con le ore di luce che sono più o meno 12 tutto l’anno, estate e inverno, cercando di sfruttarle al massimo. La corrente elettrica non è sempre disponibile, anzi c’è solo nelle città, e a volte la sera salta. Per il resto, il Madagascar è immerso nel buio.

Lunedi, 21 luglio

Cielo grigio. Il programma prevede lo spostamento a Ambositra, nel pomeriggio. La giornata comincia con e spese: dobbiamo acquistare il materiale da portare all’allevamento di Ihosy. Prima le piante al vivaio e poi i tubi per l’irrigamento in un grande negozio di stampo occidentale.

Prima le piante, al vivaio e poi i tubi per l’irrigamento in un grande negozio di stampo occidentale. Mentre aspettiamo un tempo interminabile che predispongano il materiale comperato e lo carichino sul pullmino, ci affacciamo sulla strada. Ecco la città e i suoi contrasti: grattacieli e baracche, cibo di strada e cartelli che pubblicizzano prodotti occidentale, auto e carretti tirati a mano, e gente a piedi, tutti sulla carreggiata della strada! Aldo compera un giornale malgascio all’edicola. Intanto il pullmino comincia a riempirsi.

Passiamo in un centro commerciale per acquistare cartoline e libri, e a una bancarella di strada la frutta per il viaggio e per la casa famiglia. Mandarini, banane e ananas.

Attraversiamo il centro storico della città bassa, che è comunque a 1.400 mt sul livello del mare. Passiamo davanti al municipio e ci fermiamo dall’altro lato della piazza dove ci sono le Edizioni Paoline. Cerchiamo qualche libro per la biblioteca della casa famiglia di Fianarantsoa.

Ripartiamo. Vediamo la scalinata ripidissima che porta alla città alta, una delle due costruite dai francesi durante l’epoca coloniale. In questa zona ci sono le case del periodo ottocentesco coi tipici tetti rossi spioventi a 4 falde simili a quelli delle pagode. In alto troneggia la Chiesa di Faravohitra.

Ci fermiamo di nuovo a lato della strada piena di gente, ma scende solo Giangi perché ha cominciato a piovigginare. Si avvicina al vetro una signora che ci mostra un ricamo tipico, pieno di colori, e vorrebbe vendercelo.

Torniamo al villaggio Akamasoa a visitare la cava di pietre. Ieri essendo domenica non si è lavorava. La cava è in alto, sopra la città: da qui si gode il panorama delle colline e al centro il lago Anosy.

Ci fa da guida una donna. Nella cava lavorano prevalentemente le donne: ognuna ha una sua postazione, o meglio un posto dato che sono sedute per terra, e battono col martello su una grossa pietra davanti a loro che funziona praticamente da tavolo. Il lavoro è in sequenza: nella parte inferiore della cava gli uomini picconano il fianco della collina per staccare grossi blocchi di pietra, perchè la dinamite non è più disponibile.

I blocchi vengono portati nella parte superiore della cava in grossi sacchi che le donne portano sulla testa e poi rovesciano a terra. Le altre si alzano dai loro posti, le prendono e li riducono in dimensioni più piccole fino alla ghiaia. In realtà le pietre vengono vendute di tutte le misure, a seconda dello scopo.

Ci fermiamo per parlare con una lavoratrice. Padre Giangi ci invita a farle domande, ma noi siamo completamente impreparati…spiazzati..ci si rovesciano un po’ di concetti e certezze consolidate. Siamo esterrefatti e le domande non vengono. Infatti è lui che chiede e traduce le risposte. Ha due figli che finita la scuola aiutano la mamma a sminuzzare le pietre con dei martelli più piccoli..sbagliare la mira non è raro, le dita si beccano le martellate.

Giangi commenta: queste sono le vacanze di questi ragazzi, altro che andare al mare!

Un’altra donna ha con sè un piccino che si nasconde per non farsi vedere. C’è anche un uomo (l’unico) di 70 anni che è in pensione (andare in pensione si dice “bere il latte”!) e ha bisogno di guadagnarsi da vivere.

Dalla cima della collina scendono altre donne che portano sulla testa delle grosse taniche di acqua presa alla fontana, più in alto

Ho nella mente tanti visi di donne che lavorano, ognuna coi suoi bambini, e sorridono. Ancora una volta penso che quella che a noi sembra una situazione miserabile per questa gente è ricchezza …avere un lavoro e una casa nel villaggio di Padre Pedro, i figli che frequentane le scuole, è una fortuna!

Lasciamo la cava e a piedi percorriamo una strada del villaggio dove si affacciano le case. La guida dice che ci porta al negozio del ricamo, invece ci troviamo nel negozio delle borse in raffia, realizzate a mano. Ci sembrano tutte bellissime che vorremmo prenderle tutte ma ne acquistiamo solo qualcuna (dobbiamo scegliere.. purtroppo!).

Uscendo da Akamasoa attraversiamo la discarica dove Padre Pedro ha ideato il suo progetto molti anni fa. E’ recintata, ma la gente ci vive ancora…

Prima di lasciare Tanà ci fermiamo in un’area di servizio a fare benzina, che costa come in Europa. Nel negozio lì accanto, genere autogrill, prendiamo un caffè (espresso) e qualche provvista per quando arriveremo alla casa di Fianarantsoa. Alla periferia della città c’è questa ruota panoramica artigianale!

Percorriamo la RN7, l’unica arteria che serve il Madagascar per tutta la sua lunghezza e per molti tratti corre parallela ai corsi d’acqua.

Proprio in un isolotto al centro del fiume vediamo le fornaci dei mattoni: una volta preparati con l’argilla cruda, vengono posizionati uno sopra l’altro come una casa. All’interno viene acceso il fuoco per cuocerli. Verranno poi utilizzati per le costruzioni. Vedremo queste fornaci praticamente ovunque, per tutto il viaggio, perché i mattoni possono essere cotti solo in estate.

Il viaggio è intervallato da soste, appuntamenti abituali per chi ci è già stato, che servono anche a sgranchirci le gambe! La prima per acquistare le fragole: un cestino per il viaggio. La seconda per altre piante. Il negozio è un lungo chiosco al bordo della strada gestito da una donna con un bambino piccolo e una ragazzina. Con questi acquisti il pulmino 9 posti e 6 passeggeri, noi 5 più Michel, e Haja come autista, è praticamente al completo!

Poi la tappa dell’ananas: ne comperiamo alcuni per la casa famiglia e qualche fetta da gustare subito. Un sapore squisito! Proviamo anche un tubero bianco pure questo a fette ma è pastoso e si sfarina in bocca… non ci piace.

La strada attraversa gli altipiani centrali: a destra e sinistra colline sulle quali sono arrampicati villaggi di un pugno di case di mattoni rossi e col tetto di paglia, e corsi d’acqua e risaie e zebù che pascolano.

Le condizioni del fondo stradale non sono buone, anzi, andando avanti peggiorano e quindi le distanze raddoppiano rispetto ai nostri standard: i 260 km fino a Ambositra richiedono più di 5 ore. La strada è percorsa dai taxi brousse – brousse vuol dire campagna, mezzi pubblici che stipano fino all’inverosimile persone all’interno e i relativi bagagli sul tetto. Ci sono poi i camion che portano al nord le merci arrivate nei porti meridionali, i fuoristrada di chi può permettersene il noleggio, e pullmini privati come il nostro. Nell’abitacolo fa un caldo notevole perché il motore che bolle è direttamente sotto i nostri piedi e per la precisione sotto quelli di Elide..il nostro eroico mezzo ha fatto 900.000 km e cambiato tre motori! Ammortizzatori zero: ogni buca un salto. Persone e animali occupano strada: ho il terrore che potremmo centrarli, ma Haja suona il clacson per farsi largo, senza rallentare e loro che sono abituati si spostano. Haja strombazza vivacemente facendoci sobbalzare anche quando incrociamo nel senso di marcia opposto un camion che sembra venirci addosso: finchè la strada sembra libera si cammina al centro!

Sul percorso si concentrano punti vendita dello stesso genere di artigianato. Ci fermiamo così alla zona dell’artigianato di paglia, dove appunto ci sono diverse bancarelle che vendono borse, animaletti, bambole, tovagliette, cesti, pouf, oggetti coloratissimi realizzati a mano dalle donne. Facciamo su e giù diverse volte e poi compriamo. I prezzi rapportati agli euro sono davvero irrisori.

Ho perso la cognizione del tempo: sono probabilmente le due quando ci fermiamo a pranzare in un paese la cui specialità è il fegato d’oca. A destra e sinistra della strada ci sono numerosi Hotely, cioè ristoranti. Entriamo in uno di questi che Giangi già conosce e mangiamo (non tutti il fegato d’oca) e concludiamo il pranzo con le nostre fragole pret a porter.

Continuiamo verso la nostra mèta senza più fermarci, passando accanto ad altri “centri commerciali”: quello dei giocattoli di latta, quello degli strumenti musicali e quello del miele, delle marmellate e verdure in barattolo.

Man mano che proseguiamo appare sempre più chiaramente il colore rosso della terra: dalla strada nazionale si dipartono continuamente a destra e sinistra strade sterrate che salendo si addentrano fino ai villaggi.

Il tramonto accende di colore i profili del paesaggio. E’ uno spettacolo meraviglioso, ma le foto dal pulmino in sommovimento non vengono per niente bene. Questo cielo africano mi sembra immenso: non ha confini, occupa tutto lo spazio. Sembra di avere sopra la testa il mare aperto.

Il sole cala più velocemente che da noi, e si fa buio molto rapidamente: in questo limbo della notte che incombe, sperimento che gli occhi si abituano a vedere con questa poca luce senza l’aiuto della luce artificiale.

Entriamo a Antsirabe schivando le persone che si affrettano a rientrare nelle case, e i pousse pousse a trazione umana. Ci fermiamo, ancora ma scendono solo gli uomini. Intanto ai finestrini si accalcano tutte insieme diverse donne che vogliono venderci gli utensili da cucina, prodotto tipico di questa città: comperiamo una frusta, qualche spiedino e i piccoli attrezzi per fare le verdure a julienne. Naturalmente completati gli acquisti con una di loro anche le altre insistono perché comperiamo qualche cosa anche da loro infilando dentro l’abitacolo gli oggetti dal piccolo finestrino aperto. E’ una guerra di resistenza!

L’ultimo tratto del viaggio, fino a Ambositra, lo facciamo completamente al buio. Ci sono diversi posti di blocco e veniamo regolarmente fermati. Giangi ci propone di recitare un rosario, e poi ci addormentiamo.

Quando arriviamo all’albergo è molto tardi: siamo gli unici ospiti. Una volta sistemati nelle camere, al piano superiore senza ascensore, ci accomodiamo per la cena che era pronta da un pezzo, con una zuppa calda molto buona che ci ristora. L’albergo Sokela è molto dignitoso e ben curato: UnicoSole sceglie volutamente quelli gestiti dalla popolazione locale.

Martedi, 22 luglio

Nebbia. In Madagascar non è caldo come ci si aspetterebbe e non solo perché le stagioni nella parte opposta dell’emisfero rispetto alla nostra sono a rovescio, ma anche perché siamo sugli altipiani e dobbiamo avere con noi almeno una felpa.

Facciamo colazione coi panini freschi che sono andati a comperare per noi in paese facendo ovviamente tutta la strada a piedi, dato che l‘albergo è fuori del centro abitato, e di mezzi privati nemmeno a parlarne. Poi passiamo al negozio di artigianato del legno di Frere Jean, a lato della RN7. Padre Giangi ordina una Madonna (di legno) da portare in Italia.

Il programma prevede l’incontro al Liceo di Tsarasaotra che abbiamo inaugurato lo scorso anno, ma prima ci fermiamo alla casa di uno dei fratelli di Michel, sempre lungo la stessa unica strada asfaltata.

Fuori della casa una donna pesta nel mastello con un lungo bastone mentre un bimbo piccolo, in braccio al fratello un po’ più grande, piange disperatamente. Scopriamo così che qui i bambini hanno paura…dell’uomo bianco!!!! Abbiamo con noi le bon bon, le caramelle che Irene avrà il compito di distribuire per tutto il viaggio ogni volta che incontreremo dei bambini. In questo modo riusciamo a conquistare la fiducia e il sorriso dei piccoli.

In un locale lì accanto c’è una macchina elettrica che pulisce il riso e scarica all’esterno la pula, come mangime per i polli. Il riso viene rovesciato con un grosso imbuto nel macchinario che separa i chicchi dalla pula. Oggi dalle campagne circostanti sono venuti due ragazzini coi loro sacchi e naturalmente a piedi.

C’è anche qualche maiale: di così magri però non ne avevo mai conosciuti!

Sempre col nostro pulmino, dopo un breve tratto di RN7 arriviamo al liceo: lo vediamo dalla strada. Sulla facciata campeggia il nome del Liceo con ai due lati i simboli di UnicoSole e di Rainay. E’ la prima volta che vedo una scuola sorta con i finanziamenti di Unicosole!

Il preside del Liceo ci aspetta: parcheggiamo, ci salutiamo e entriamo. Queste scuole non hanno uno spazio comune chiuso, e quindi dall’esterno si accede direttamente a ciascuna classe. Le aule sono spaziose e luminose, i banchi in legno, la lavagna realizzata nel muro. Davanti all’edificio c’è uno spiazzo: il terreno venne disboscato durante la costruzione per ricavare, con la vendita del legname, il denaro per pagare la quota a carico della comunità. C’è anche qualche insegnante, i rappresentanti dei genitori, poi arriva il sindaco con la motocicletta: il tubo di scappamento gli ha bruciato un pezzo di pantalone. Gli studenti sono in vacanza, tranne quelli che devono sostenere l’esame di maturità ed infatti arrivano per incontrarci. Le scuole sono utilizzate anche come sale riunioni e quindi prendiamo tutti posto, loro nei banchi e anche noi, di fronte a loro dal lato della cattedra: sembriamo una commissione d’esame! Comincia l’incontro, il primo di molti simili che vivremo in questi giorni, in cui domandiamo e ascoltiamo. I ritmi del dialogo sono quelli dettati dal rituale malgascio che avevamo assaggiato al ristorante col deputato. Non entro nel dettaglio degli interventi perché i contenuti sono già stati raccontati da Elide nel suo diario, e così farò anche per le altre riunioni tecniche. Mi soffermo piuttosto sulla dinamica dell’incontro. C’è la gerarchia degli interventi: la parola spetta in funzione del ruolo, con un ordine prestabilito. Chi parla si alza in piedi e prima di entrare nel vivo ringrazia in base all’importanza del benefattore, quindi prima Dio, poi noi, poi l’uccello di ferro che ci ha portato fino a qui, e poi a chiusura del discorso benedice e augura il bene. L’esposizione dura a lungo perchè ciascuno, il sindaco, il rappresentante dei genitori, il preside, un insegnante, il rappresentante dei ragazzi, illustra sotto la particolare angolatura che il ruolo gli impone le esigenze scolastiche del territorio, il numero degli studenti, la presenza e le modalità di reclutamento e remunerazione degli insegnanti, i costi sostenuti e i sacrifici affrontati dalle famiglie per far studiare i figli. Avanzano poi le nuove richieste di finanziamento.

Poi tocca a noi presentarci uno per uno, raccontare qualcosa della nostra vita, ringraziare, esprimere le nostre impressioni. Certo noi neofiti siamo un po’ impacciati di fronte a questi occhi curiosi e a questo modo poco spontaneo di fare conoscenza di tanta gente tutta insieme. Padre Giangi traduce le domande e le risposte e senza la sua mediazione sarebbe difficile comunicare.. a volte la traduzione di quanto abbiamo detto è piuttosto…libera!!! Chiediamo a tutti i ragazzi, uno per uno, cosa vorrebbero fare dopo il Liceo, anche se solo la metà di loro sarà promossa: infatti il tasso di successo scolastico nel Paese in tutte le classi è appunto del 50%. Rispondono uno alla volta con un po’ di imbarazzo mascherato da una risata e da uno sguardo complice ai compagni: fanno tenerezza! Elide propone di finanziare un progetto di un ragazzo che voglia impegnarsi nell’allevamento o nella coltivazione della terra.

La parte ufficiale termina con gli impegni e saluti, e rimaniamo fuori a chiacchierare, nonostante le difficoltà della babele linguistica, un po’ inglese, un po’ francese, qualche parola di italiano.

Il preside invita Aldo a tornare il prossimo anno per insegnare l’italiano ai ragazzi. Il rappresentante degli studenti si scambia l’indirizzo email con Irene. Padre Giangi che conosce le persone e la lingua, spazia!

Prima di andare via facciamo la foto di rito tutti insieme davanti alla scuola. Il commiato è caloroso e interminabile. Separarsi non è facile..

Il panorama da questa postazione è magnifico. Le montagne hanno curve dolci e il cielo, divenuto azzurro, non è mai sgombro, ma attraversato sempre da nuvole bianche e larghe a perdita d’occhio che sembrano convergere verso un unico punto… da tuffarsi nell’infinito…

Riprendiamo la via e incontriamo un corteo che accompagna una coppia di sposi. l’Africa cammina e la strada è sempre piena di gente che si sposta da un paese all’altro.

Prossimo impegno alle 12, il villaggio di Ambohipia, il che equivale a percorrere un tratto di strada statale e poi svoltare in un altro sentiero laterale sterrato. A Ambohipia abbiamo ripristinato qualche anno fa una diga, con l’impegno al versamento della quota da parte dei contadini che usano l’acqua per irrigare e coltivare i terreni. Avevamo anche costruito una scuola elementare, un acquedotto con le relative fontane e attivato la mensa scolastica che non ha avuto successo per lo scarso impegno da parte della comunità.

Al nostro arrivo non c’è quasi nessuno ad aspettarci. La prova fontana è positiva: Giangi gira il rubinetto e l’acqua scende!

C’è qualche bambino e un pugno di adulti, una signora anziana che è il vicesindaco, il responsabile del comitato delle fontane, e una giovane rappresentante del comitato della diga che nell’aula della scuola ci relazionano sulla situazione. Nonostante lo scarso impegno dimostrato da questa comunità, UnicoSole vuole offrire ancora una opportunità sia per la diga che per la mensa, a patto di ricevere, durante la nostra permanenza, proposte convincenti di coinvolgimento e affidabilità. Purtroppo, fino a che siamo ripartiti non abbiamo avuto riscontro.

Per pranzo siamo invitati a casa dell’altro fratello di Michel. Ci avviamo a piedi per un sentiero poco distante che corre sopra le risaie a terrazze che digradando rispecchiano alberi e cielo.

Vicino alla casa c’è una fontana e nel porticato del piano terra sono stesi a seccare i tuberi scuri della manioca: non li avevo mai visti. La casa è simile o meglio uguale a tutte le case malgasce: ha due piani, con balconi simmetrici e delle grandi stanze non arredate. O meglio a noi sembra così: in realtà la grande sala da pranzo è arredata con delle stuoie che coprono tutta la superficie del pavimento, e da pouff riservati a noi ospiti. Siamo gli unici a entrare con le scarpe: gli altri se le tolgono. Irene Elide e io siamo le uniche commensali donne perché le donne della casa sono impegnate a cucinare per noi e a servire. Considerata la povertà di questa gente, imbandiscono un pranzo ricco: oltre al riso, che è la base di ogni pasto, ci sono le carote crude tagliate alla julienne, pomodori in insalata, carne arrosto e della frutta. La loro bevanda è l’acqua di riso, mentre per noi c’è aranciata e coca cola. Alla fine del pranzo ci regalano una gallina: viva, come si usa qui. Il commiato richiede sempre un tempo considerevole: oltre ai ringraziamenti e alle foto, Padre Giangi è di casa in ogni luogo e ha sempre una parola (malgascia) e un abbraccio per ognuno. Il tempo però è ritmato oltre che dagli impegni stabiliti, anche dalla durata della luce del sole, e quindi dobbiamo ripartire.

Torniamo indietro lungo la stessa strada ed il paesaggio della risaia con qualche uomo al lavoro è sempre incantevole e lo fotografiamo in tutti i modi per imprimerlo nella memoria. Al centro c’è la costruzione dei mattoni cotti già attinta per tirare su case nuove.

Col pullmino ridiscendiamo sulla strada statale e raggiungiamo Andrianarivo, dove nel 2010 abbiamo inaugurato una scuola e nel 2011 abbiamo riabilitato un acquedotto in disuso. Ci accoglie una piccola folla, ma prima di cominciare la riunione con i rappresentanti della comunità ci affacciamo nelle classi dove c’è lezione. Sono gli studenti dell’ultimo anno della scuola media.

Vedendoli chini sui quaderni, mi rendo conto che qui i ragazzi non hanno libri sui quali studiare. L’unico strumento per lo studio individuale sono gli appunti che ricopiano dalla grande lavagna che occupa l’intero lato corto di ogni classe e che gli insegnanti riempiono appunto a questo scopo. Ogni studente utilizza 18 quaderni ogni anno. Chiediamo loro cosa pensano di fare il prossimo anno, se supereranno l’esame. Chi farà il Liceo? Molti alzano la mano. Il Liceo è la premessa dell’Università. UnicoSole, anche considerato l’alto tasso di insuccesso scolastico, preferirebbe invece le scuole tecniche e professionali che possono offrire una opportunità di lavoro già alla conclusione del corso di studi superiori.

Ci accomodiamo in un’aula nel plesso delle elementari, lì vicino. Come stamattina a Tsarafidy, anche qui la zona cattedra ci è stata preparata con diversi banchi, così oltre a domandare e ascoltare possiamo appoggiarci per scrivere e prendere appunti. Naturalmente questo ruolo è di Elide e Giangi ma anche noi matricole del viaggio ci sediamo da questa parte. I banchi sono pieni di gente, c’è anche una mamma che allatta un piccolo! Prendono la parola il presidente del villaggio e il presidente dell’acquedotto. La sorgente è buona, l’acqua sufficiente, ma con le tubazioni ci sono stati problemi perché in fase di impianto non erano state collocate alla giusta profondità. I tubi si sono rotti, sono state fatte delle giunte con la colla anziché coi raccordi…mi rendo conto che il problema principale non solo qui, ma in ogni villaggio che visiteremo, è la scarsa capacità di fare le cose a regola d’arte e soprattutto di manutenerle. A questo si associa la difficoltà di gestire: ogni persona che usufruisce dell’acqua deve contribuire con le modalità stabilite, e i fondi raccolti devono essere utilizzati per la manutenzione e l’ampliamento. Ma il cammino di questa consapevolezza è ancora molto lungo e sostituirsi a loro invece di insegnare e spiegare, ma poi lasciarli sperimentare, sarebbe come pescare noi invece di dare loro la canna da pesca.

Prima che faccia notte vogliamo andare a vedere il lavoro di riparazione della diga che è franata l’inverno scorso per le piogge torrenziali. Attraversiamo a piedi il bosco e le risaie mentre il sole comincia a calare. Quando arriviamo alla diga è praticamente buio. Giangi mostra a Michel e Aldo che il lavoro non è stato fatto bene e certamente la riparazione col metodo del rattoppo non reggerà alle prossime piogge.

Intanto da diversi punti del bosco arrivano i bambini. Piccoli, più grandicelli, sembrano sbucare fuori direttamente dalla terra: gridano, scherzano, corrono e si rincorrono a piedi nudi veloci come saette, ridono e ci sorridono con gli occhi divertiti. Chiedono le caramelle ma le abbiamo lasciate sul pullmino!

Al ritorno, a piedi sui sentieri del bosco, gli occhi non si abituano a vedere con l’ultimo debole chiarore del cielo che comincia pian piano a popolarsi di stelle e dobbiamo utilizzare le torce. Altra sosta da Frere Jean, poi rientriamo in albergo,

Mi cimento con il bucato..Irene ha freddo perchè abbiamo portato solo due felpe e una si è macchiata. Un dramma non tanto lavare la felpa quanto farla asciugare con questo clima…per fortuna sopperisco col phone, e in diverse puntate ottengo il risultato.

Per cena ci aspettano una zuppa calda, la carne di zebù e le patatine fritte. Il cameriere si chiama Joseph e ci serve con il cappello: è delizioso.

Mercoledi, 23 luglio

Anche questa mattina colazione col pane fresco comperato da Joseph che è andato in città a piedi per noi all’alba, poi perlustriamo ancora le creazioni di Jean. Sono molto belle, di qualità sia nei materiali che nei disegni. Mentre noi donne siamo in negozio, Aldo e Giangi vanno a visitare il laboratorio e gli artigiani al lavori di intaglio e intarsio. La giornata malgascia è cominciata da un pezzo e lungo la via incontriamo le persone che dalle campagne stanno arrivando in città con le merci da vendere al mercato, dopo aver percorso a piedi chilometri con le borse e le teste piene.

Oggi visitiamo Manarinony dove abbiamo riabilitato un acquedotto e dove finanziamo ogni anno la mensa nella scuola elementare per otto settimane del periodo invernale. La giornata è nuvolosa e fresca.

Come al solito utilizziamo la strada nazionale per un breve tratto, poi svoltiamo in una delle strade sterrate laterali che si irradiano salendo fino ai villaggi rurali nei quali vive la maggior parte della gente. Qui la corrente elettrica non c’è, con tutto quello che ne consegue. Noi occidentali possiamo immaginarlo solo analizzando quante delle nostre abitudini e della nostra vita dipendono proprio dall’energia elettrica e di quante cose dovremmo fare a meno se non ne disponessimo.

Alle 9 arriviamo nella piazza principale dove sorgono la scuola e la Chiesa. Balza agli occhi il colore rosso dell’argilla del terreno e delle case: l’isola rossa! Ci accolgono poche persone e non ci sono bambini. La nostra delegazione è sempre la stessa: noi 5 italiani, Michel e Haja.

Nella piazza c’è anche una fontana e Giangi apre come di consueto il rubinetto per verificarne la funzionalità: l’acqua non scende. Dopo aver parlato con Michel decidiamo di fare un giro prima dell’incontro e quindi attraversiamo il villaggio per arrivare al bacino di raccolta dell’acqua.

Ci incamminiamo fra grappoli di povere case tutte uguali, mattoni rossi e tetto spiovente di paglia, bucate sempre negli stessi punti da porte e finestre di assi di legno. Mentre ci sembra di essere nel deserto, anche qui dal nulla spuntano fuori i bambini. Questi però sono ancora più miseri di quelli visti finora. Scalzi come al solito, ma gli abiti laceri che hanno indosso, troppo grandi o troppo piccoli, sono gli unici che possiedono e che usano giorno e notte fino alla consunzione. Nelle famiglie malgasce ci sono mediamente 6 bambini, e i fratelli maggiori si occupano dei più piccoli. Una bimba di 5 o 6 anni ne porta sulle spalle uno piccino legato dentro un telo. Non si avvicinano ma ci seguono a distanza con lo sguardo.

Arriviamo fino al punto in cui il canale è stato riparato dopo il crollo dovuto alle piogge torrenziali dello scorso inverno. Come per la diga visitata ieri sera, la riparazione è stata effettuata con il metodo della toppa e ci lascia molto perplessi. Anche qui le piogge hanno scavato una voragine che si è trascinata appresso una parte della collina creando praticamente un canion. Poco distante, in mezzo all’erba alta, c’è una costruzione con una forma curiosa che non ho mai visto e mi avvicino per esplorarla. Ci sono due corridoi, uno di ingresso e uno di uscita, e una zona centrale esagonale. E’ un recinto costruito dalla Comunità Europea per la vaccinazione degli animali. In stato di abbandono. Pure in stato di abbandono è un progetto USA di coltivazione del mais: per 5 ore al giorno di lavoro i contadini vengono retribuiti con un sacco di riso e una bottiglia di olio.

Considero che questi progetti, forse ideati lontano da qui, impiantati e abbandonati, che non rispondono alla cultura di questa gente, sono un fuoco di paglia. Invece UnicoSole realizza le cose che richiedono le comunità, ponendo delle condizioni per coinvolgere chi chiede l’intervento, e poi torna…torniamo sempre! UnicoSole resta vicino alle popolazioni, comincia e prosegue con loro un dialogo…l’opera non è la conclusione, ma l’inizio di una collaborazione.

Mentre ci lasciamo alle spalle la collina e attraversiamo la valle coltivata a risaie che la separa dall’altura sul lato opposto, notiamo una pozza d’acqua alimentata dal tubo rotto dell’acquedotto. Incontriamo poi un agrumeto con la frutta sugli alberi, ma i contadini ci dicono che non la raccolgono.. non sono coltivazioni indigene che appartengono a questa cultura, ma importate..

Anche da questa parte del villaggio c’è un gruppo di case, e ancora tanti bambini: ci guardano dalle finestre annerite di fumo, arrampicati sulle scalette a pioli per nascondersi, altri schierati ci aspettano.

Giangi si ferma a parlare con loro. Irene distribuisce le caramelle e quando dice CIAO tutti ridono scoprendo i denti bianchissimi che illuminano i visetti scuri.

Al piano terra della casa c’è il magazzino dove si conservano le provviste di cibo, riso e manioca, che le donne pestano in grossi mastelli con un lungo bastone. Ci fermiamo a osservarne una che così ci mostra la sua maestria nel compiere gesti che io sarei assolutamente incapace di compiere. Le diamo qualche ariary per ringraziarla del tempo che ci ha dedicato. Attorno a noi si è radunato il pubblico cioè tutta la famiglia, alcune donne e tanti bambini che si arrampicano scalzi veloci come furetti su e giù sulle scale a pioli che portano alle stanze della casa.

Le padrone di casa ci invitano entrare, e con un impaccio e una lentezza che desta l’ilarità generale anche noi Biondo affrontiamo la scaletta.

Anche questa casa, assai più povera di quella del fratello di Michel dove abbiamo pranzato ieri, ha la stessa struttura: al centro della costruzione c’è la scala di legno, e le stanze si aprono ai lati della scala. Sul pavimento sono adagiati i giacigli (si fa fatica a chiamarli letti). Non ci sono armadi; gli indumenti sono riposti in sacchi di plastica. A terra le bottigliette di plastica, usate come contenitori e considerate una ricchezza.

Le finestre non hanno vetri ma solo le imposte di legno. Dall’altro lato dello stesso ambiente c’è un fornello acceso con una pentola. Ecco perchè è pieno di fumo e perchè i contorni esterni delle finestre sono abbrustoliti. Provo a immaginare cosa significhi vivere così…ma le ospiti che ci accompagnano nella visita coi bimbi in braccio.. sorridono!

A fianco della casa c’è una mucca che non pascola libera, ma in un recinto rotondo scavato nella terra; lo scipo è raccogliere il letame e utilizzarlo come concime. E’ una cosa eccezionale in Madagascar dato che di solito la terra viene sfruttata fino a che si impoverisce completamente, ma poi non c’è niente per poterla rivitalizzare.

Ci arrampichiamo sul bacino: è pieno, e l’acqua arriva abbondante, ma anche la prima fontana dell’acquedotto, piazzata poco distante, è secca. I tubi sono troppo superficiali e si riempiono di terra, ma non vengono ripuliti.

Al ritorno incontriamo un ragazzo con una carriola che dalla “fabbrica” porta i mattoni poco più in là, dove la sua famiglia sta costruendo la casa nuova. Con le piogge, le case si deteriorano (quelle in mattoni di argilla cruda prima di quelle in mattoni cotti) e quindi dopo 5/6 anni si disfano e devono essere ricostruite. Tutta la famiglia allargata partecipa alla costruzione, anche i bambini più grandicelli. Ci fermiamo a osservare il lavoro, che padre Giangi ci illustra nel dettaglio: la base dell’edificio è stata perimetrata con le fondamenta in cemento armato di terra; ai 4 angoli del rettangolo, i mattoni vengono posizionati in modo da creare un grande pilastro, legati fra di loro con l’argilla liquida. Fra gli strati di mattoni viene steso il collante. L’attrezzo per spargere il liquido è un bastone al quale è stato assicurato un contenitore di plastica.. bene prezioso…La tecnica è porre una fila di mattoni per lungo e una per largo. La perpendicolarità di ogni nuovo strato viene misurata con la livella. I mattoni sporgenti rappresentano l’attacco quelli che saranno utilizzati per le mura. Il lavoro è rallegrato dalla musica della radio, che trasmette melodie malgasce.

Nel tornare alla piazza all’inizio del villaggio attraversiamo nuovamente il primo gruppetto di case dove si erano materializzati i bambini. Ne incontriamo alcuni che si stanno avviando a lavorare nei campi con attrezzi più gradi di loro. Mi si stringe il cuore. Giangi li interroga…

I genitori e le insegnanti ci aspettano: il gruppo ora è molto nutrito.

Ho imparato: noi seduti alla cattedra, i genitori e le insegnanti nei banchi, la classe è piena, Haja sequestra le macchine fotografiche di Elide e Aldo e scatta le foto per il reportage. Ascoltiamo tutti coloro che sono titolati a parlare e che come sempre aprono il discorso con le benedizioni e i ringraziamenti, poi è il nostro turno. In questa scuola c’una preside in gamba, donna decisa con modi e abbigliamento occidentali, diversi dal modo tradizionale delle altre donne presenti. Prende la parola lei stessa e poi introduce le maestre. In fondo alla classe ci sono degli armadi, e sui banchi libri e quaderni, un po’ di materiale didattico. Nelle altre scuole non ne ho visti. Sempre merito di questa preside, immagino!

Prendiamo appunti un po’ tutti. Anche se la relazione ufficiale la farà il Presidente, scrivere mi serve ad fermare alcuni concetti indispensabili per comprendere. Come il fatto che lo Stato, oltre a non avere i soldi per costruire le scuole, non ha nemmeno quelli per pagare gli insegnanti, per cui il ruolo dei comitati dei genitori (i FRAM) qui è assolutamente indispensabile perchè i ragazzi possano studiare. Dal FRAM vengono incassate direttamente le tasse scolastiche.

Esistono diverse tipologie di supplenti: i tirocinanti degli ultimi anni di università, quelli scelti dai comitati dei genitori e pagati dallo Stato, e quelli sempre scelti dai comitati dei genitori e pagati pure dai genitori, ma non con il denaro, bensì con il riso. E come si misura il riso? Non a chili, ma a kapoke. La kapoka corrisponde a circa un etto e mezzo di riso. Questo ci indurrebbe pensare, alla maniera italiana, ad una certa indulgente gratitudine degli insegnanti nei confronti delle famiglie e quindi a una larghezza di maniche nella valutazione degli studenti. Invece no: solo la metà dei ragazzi viene ammessa alla classe successiva. Si apre il dibattito per cercare di capirne le ragioni. I ragazzi non sono assidui nella frequenza e i genitori non sono in grado di aiutarli nei compiti. Se ripenso alla casa che abbiamo visitato, mi chiedo dove i ragazzi possano studiare..e non trovo una risposta!!…non ho visto da nessuna parte una cosa che somigliasse a un tavolo… Molti ragazzi fanno fatica a seguire: sono piccoli, dicono le maestre, sono distratti dai giochi, apprendono lentamente, e arrivano in terza elementare che non sanno leggere; alcuni ripetono la stessa classe non due, ma tre volte!

Torna alla ribalta la faccenda delle assenze soprattutto nel periodo di sutura cioè fra la fine delle scorte alimentari dell’anno precedente e il nuovo raccolto. In questo tempo, all’inizio di ogni anno, gennaio, febbraio, marzo, i genitori coinvolgono i figli nel lavoro dei campi e ritengono che la scuola rubi br accia alla campagna. I ragazzi inoltre devono badare ai fratelli più piccoli. I genitori di questa opinione che non mandano a scuola i figli non sono qui, naturalmente. Insomma occorre più collaborazione fra insegnanti e famiglie, soprattutto sarebbe necessario convincersi dell’importanza della formazione scolastica.

La descrizione della situazione di Manarinony rappresenta con ogni probabilità quella di tutti i comuni rurali. La differenza, la grande opportunità è offerta dalla mensa, che garantisce il pasto ai ragazzi proprio nel momento di maggiore difficoltà per le famiglie e diventa quindi una leva per la frequenza della scuola. La preside ci relaziona in modo puntuale (e anche per iscritto, con un dossier che consegna a padre Giangi e Elide) lo svolgimento del servizio mensa: il menù, i costi, i fondi ricevuti, il contributo delle famiglie in riso (le famose kapoke), nella preeeparazione e distribuzione dei pasti nelle classi, che viene effettuata a turno dai genitori. L’incontro si conclude con il resoconto sull’acquedotto e sulle fontane.

Alla quarta riunione in due giorni, che risente anche dei tempi doppi dovuti alla traduzione da parte di Giangi, Irene dopo mezz’ora non regge più e esce a giocare coi bambini. Socializzano con il linguaggio muto dei gesti e dei sorrisi. Ben presto si capiscono: lei insegna loro dei giochi come rubabandiera, un due tre stella, o come le mani una sopra l’altro, e loro ridono in una maniera che potrebbe sembrare eccessiva se non fosse che queste sono per loro tutte novità divertenti.

Le maestre hanno organizzato un rinfresco nell’aula accanto a quella della riunione: ci sediamo alla tavola apparecchiata di cose buonissime, specialmente delle sfoglie ripiene di carne, e bevande occidentali. Hanno inoltre preparato un regalo per ciascuno. Anche noi consegniamo i doni che avevamo preparato per loro, e poi ci congediamo.  

Persa completamente, come sempre, la cognizione del tempo, per pranzo torniamo dal fratello di Michel, dove siamo stati ieri. Ci aspettano i genitori di alcuni studenti che ospitiamo nella casa famiglia di Fianarantsoa, e dei liceali per i quali UnicoSole finanzia l’ultimo anno di studio a Ambositra.

Stringiamo una infinità di mani tese di mamme, papà, bambini e ragazzi schierati a fianco della casa, scambiando sguardi e sorrisi: tonga soa, veluma, bienvienue! Noi 6 come ieri abbiamo il privilegio di salire in casa a mangiare. Fra le pietanze oltre a spaghetti, a maiale, patate, c’è anche la pollastrella che ci avevano regalato ieri! Concludiamo con frutta e caffè. Tutti gli altri numerosi ospiti mangiano all’aperto, in cortile, dove sui fornelli artigianali di pietre e legna fumano enormi pentole di riso: per fortuna la giornata si è rasserenata e c’è il sole!

Durante il pranzo incontriamo una ragazza orfana di entrambi i genitori, la maggiore di 5 fratelli. A suo tempo aveva interrotto gli studi per andare a servizio nella capitale e ha ricominciato a studiare lo scorso anno frequentando un corso professionale di cucito, ospite a Fianarantsoa nella casa famiglia. Il suo desiderio sarebbe quello di proseguire la formazione, che cioè UnicoSole finanziasse la permanenza nella casa e gli studi di tutti e 5 i fratelli, ma lei è già grande, ha 22 anni, e la conclusione del percorso professionali richiede ancora un anno. Inoltre ha i 4 fratelli più piccolo ai quali deve provvedere, e una è anche lei ospite della casa famiglia e affronterà gli esami di maturità fra pochi giorni. Ragioniamo sul fatto che è meglio che siamo i suoi fratelli più piccoli a studiare, mentre lei potrebbe aprire un piccolo negozio di riparazione dei vestiti, attività che sulla base delle conoscenze acquisite è già in grado di affrontare. Le proponiamo quindi di aiutarla ad avviare questo mestiere comperandole una macchina da cucire. Le due sorelle maggiori lavoreranno e i piccoli andranno a scuola. Un po’ a malincuore, la ragazza accetta.

Scendiamo poi in cortile per l’incontro con le famiglie. Ci sono anche i ragazzi, perché la scuola è finita, tranne che quelli dell’ultimo anno delle medie e delle superiori. E’ una folla, e stavolta non c’è dove sedersi: rimaniamo in piedi mentre l’arte oratoria si dipana a lungo su percorsi che dopo solo due giorni mi sembra di conoscere da sempre. Abbiamo fra il pubblico anche diverse oche e qualche gallinella.

Ci regalano un canto corale preparato per l’occasione, e dei cappelli di paglia, a noi donne a larghe falde, che indossiamo subito. Elide e Giangi si fermano con gli studenti universitari e Irene gioca con le bambine.

Il sole comincia a calare quasi all’improvviso e si porta via la luce: molti devono fare 10 km a piedi per tornare a casa, e li faranno al buio! Stringiamo le mani uno ad uno come all’arrivo, mentre le donne raccolgono le grosse pentole e i pouf che avevano portato per l’occasione e con questi grossi bagagli sulla testa risalgono in fretta la collinetta affacciata sulle risaie. Al buio, piano piano, anche noi percorriamo la costa della collina fino al pullmino.

Quando entriamo in albergo ci sono due ragazzi che parlano in inglese con il receptionist, ma tra di loro si esprimono in una lingua nota…l’italiano! Lorenzo e Valentina, due maestri toscani, sono arrivati qui dopo un avventuroso viaggio in taxi brousse, con lunghe malgasce attese alle fermate lungo la RN7, senza avere idea di quando e se un mezzo sarebbe arrivato, e quali sarebbero state le condizioni di viaggio, innanzitutto riuscire a salire!!!

A cena si uniscono a noi, e ci raccontiamo le ragioni dell’essere qui, le impressioni, le esperienze. Sono diretti come noi a Fianarantsoa e proponiamo loro di viaggiare con noi, che proprio domani proseguiamo verso sud. Dopo cena una signora ci porta le tovaglie ricamate a mano con disegni tipici malgasci, pieni di colori accesi: sono molto belle e ne acquistiamo diverse.

Giovedi, 24 luglio

Ci alziamo presto come al solito, e mentre facciamo colazione con il pane fragrante, Haja carica i bagagli sul tetto del pullmino e li ferma con le corde. Fuori dell’albergo ci aspettano le ragazze con le bellissime sciarpine di seta grezza, c’è solo l’imbarazzo della scelta dei colori..avrei voglia di prenderle tutte…

Torniamo ancora al negozio di Frere Jean che ormai conosciamo in tutti gli angoli più reconditi, concludiamo gli acquisti, poi visitiamo il laboratorio mentre Giangi monitora lo stato di lavorazione della sua Madonna. Gli artigiani ci mostrano il bois de rose, il legno più prezioso del Madagascar, oggetto di deforestazione selvaggia e esportazione clandestina.

Nel negozio di artigianato del legno a fianco Elide e Giangi hanno acquistato dei grossi vasi sferici intarsiati che ritireremo al ritorno.

Partiamo: siamo in 10, perchè c’è anche Julienne. Pullmino al completo!

Pioviggina. La distanza fra Ambositra e Fianarantsoa è di 250 km ma sappiamo bene che ci vogliono più delle tre ore circa che potremmo preventivare se fossimo su una autostrada italiana.

Il viaggio è interessante come al solito. Davanti agli occhi fotogrammi della vita di questo popolo: donne che lavano e stendono sulla riva dei corsi d’acqua, fornaci fumanti che cuociono mattoni, ma soprattutto mercati: in ogni centro abitato e anche lungo la strada incontriamo spesso le bancarelle delle famiglie. Il Madagascar, come l’Africa, è tutto un mercato. Ci vorrebbe un album intero di foto solo per dare l’idea della varietà e della fantasia con cui la merce viene collocata in espositori fantasiosi realizzati con mezzi di fortuna!

Cesti e carretti, “negozietti” con tavolette di cera e miele raccolto in bottigliette di plastica riciclate; particolari portafrutta in legno che sembrano cappelli perché hanno la parte centrale rialzata, appesi fuori della casa.

Sullo sfondo è tutto un susseguirsi di scorci panoramici della natura plasmata dall’uomo, il capolavoro delle risaie a terrazze con il riso da trapiantare, e i piselli: Giangi commenta che i legumi rinvigoriscono e concimano la terra.

Dobbiamo fermarci perché stanno riparando un ponte di ferro. Scendiamo volentieri a sgranchirci le gambe e anche per usufruire dei servizi igienici offerti da madre natura nella boscaglia. Osserviamo con curiosità gli uomini all’opera per vedere se la tecnica è come quella che utilizziamo in Italia. Giangi descrive le fasi delle attività anche se basta guardare per capire.

La sosta dura oltre mezz’ora ma siamo tranquilli cullati dal ritmo lenti di mora mora (si pronuncia mura mura)…piano piano…

Saliamo e scendiamo per le colline e il panorama visto dall’alto sembra un presepe con tante piccole cassette incastonate nelle alture.

Altra fermata, ma stavolta per il pranzo. Mentre scendiamo dal pullmino veniamo assaliti da bambini che ci chiedono le caramelle, ma non ne abbiamo…ci chiedono allora le bottigliette vuote dell’acqua e gliele regaliamo. Irene ha un terribile mal di pancia e non mangia, ma noi altri pranziamo con il riso e la carne di zebù cucinata in modi diversi, che scegliamo a seconda della descrizione che ne fa Giangi traducendo il cameriere che prende le ordinazioni. Uno dei problemi del mangiare qui in Madagascar sono le mosche che ci tengono compagnia, e ci danno un fastidio terribile mentre per i malgasci sono una presenza.. normale!

Abbiamo appuntamento a un’ora che non so con il sindaco di Tsarafidy: la comunità ci ha chiesto l‘ampliamento del Liceo con 4 nuove aule, più due ambienti per il guardiano e la segreteria, e dobbiamo concordare le modalità della costruzione. Il fondo stradale però peggiora, dalle buche passiamo a delle fosse da sprofondo che dobbiamo attraversare a passo d’uomo per non spaccare le gomme…insomma dobbiamo rallentare l’andatura. E inoltre piove abbondantemente. Così anche Tsarafidy ci accoglie nel primo pomeriggio, con la pioggia e con il mercato.

Tutti scendono tranne Irene ed io. Irene piange dal dolore, ma non abbiamo un rimedio e quindi a un certo punto ci decidiamo a raggiungere gli altri. La strada asfaltata attraversa il paese, ma le vie laterali naturalmente sono di terra. Imbocchiamo la stradina sdrucciolevole per la pioggia: i venditori del mercato continuano a offrire la loro merce riparandosi con l‘ombrello, ma coi in piedi nudi nel fango. Però sorridono.

La viuzza curva salendo leggermente fino alla piazza del municipio che vedete nella foto qui a sotto e entriamo nell’ufficio del sindaco, un ambiente piccolo ma pieno di ospiti. La riunione è in corso. Prima di cominciare, il sindaco aveva mostrato alla nostra delegazione le aule dove sono provvisoriamente accolte le classi del liceo, con i ragazzi che si preparano al BAC.

La prima parte dell’incontro è dedicata all’acquedotto e alle fontane ad esso collegate. La situazione è analoga a quella degli altri paesi: c’è chi paga il contributo e chi no; la manutenzione non è un concetto abituale; l’estensione dell’acquedotto era stata pensata ma nulla è stato fatto.

Comincio ad avere l’impressione che sia un popolo rassegnato. Difficilmente c’è desiderio di migliorare. Per cambiare questa mentalità bisogna che i ragazzi studino e studiando si aprano a concetti nuovi. Imparino a guardare oltre. Sviluppino la creatività. Certo non è una cosa né semplice nè immediata…ma non si può smettere di seminare.

La discussione prosegue sul metodo di costruzione della scuola: tradizionale, oppure moderno con l’uso del cemento armato. Le valutazioni, oltre al costo, si focalizzano sul fatto che la realizzazione in cemento armato deve essere affidata a una ditta specializzata che viene dalla capitale. Il metodo tradizionale invece consente di impiegare la manodopera locale sia per la preparazione dei mattoni, sia per lo sbancamento e la costruzione. Insomma il beneficio per le famiglie sarebbe doppio: la scuola e il lavoro. Questa è la soluzione preferita da UnicoSole. Michel invece opta per la scuola in cemento armato e dichiara che una soluzione diversa non sarà sostenuta da Rainay. Gli insegnanti e i genitori si associano a questa scelta, perché anche la scuola media di 5 classi è stata realizzata con questo metodo, con il contributo di un’altra associazione. Noi comunichiamo che il finanziamento di UnicoSole rimane identico sia se si costruisce in un modo che nell’altro, non per imporre la nostra scelta, ma perché anche per noi è faticoso raccogliere i fondi frutto del sacrificio delle persone in Italia, e non possiamo fare il passo più lungo della gamba impegnandoci per cifre che non siamo in grado garantire. E quindi poichè i costi sono ripartiti fra UnicoSole e la comunità locale, a contributo invariato di UnicoSole il maggior costo va a carico della comunità.

A questo punto i presenti, ritenendo che la parte a carico della comunità sarebbe troppo onerosa, ritornano sulla decisione e scelgono la costruzione col metodo tradizionale. E a questo punto, data la dichiarata indisponibilità di Rainay a sostenere la costruzione dell’opera col metodo tradizionale, si stabilisce di stipulare una convenzione direttamente fra Comune e UnicoSole.

Ho voluto riportare le argomentazioni della riunione perché danno l’idea della libertà della relazione fra la nostra associazione e quelle malgasce. Non siamo appiattiti sulle stesse posizioni, non c’è un rapporto di sudditanza o predominio, ma ognuna fa le sue scelte.

Questo esito ha però aperto un nuovo scenario per UnicoSole: la collaborazione diretta con le comunità, senza la mediazione delle associazioni malgasce. Durante la permanenza a Fianarantsoa, il sindaco è venuto a trovarci, è stato predisposto uno schema di convenzione nel quale ogni parte prende i suoi impegni, UnicoSole a finanziare l’opera in tre tranche in base all’avanzamento della costruzione, la comunità locale a contribuire e a fornire sia il progetto inziale con i sottostanti costi, sia la documentazione dello stato dei lavori necessaria al versamento del denaro.

L’accordo è stato sottoscritto da Presidente e Sindaco ed è diventato, a distanza di due anni, il prototipo di altre analoghe convenzioni per la realizzazione delle scuole.

La riunione si chiude: sul tavolo del piccolo ufficio viene allestita una tavola abbondante e generosa. Le pietanze sono fredde perchè hanno atteso per diverse ore. Nessuno di noi però ha voglia di mangiare…per fortuna Aldo e Giangi si fanno avanti e fanno onore alle pietanze!

Il sindaco vuole mostrarci il luogo in cui sorge il plesso che dovremo ampliare: è alla periferia del paese e così salgono con noi sul pullmino il sindaco e un rappresentante del comitato dei genitori. Riprendiamo la statale nella direzione dalla quale siamo venuti e parcheggiamo a lato della strada. La scuola è sulla collina di fronte e quindi dobbiamo scendere, attraversare un corso d’acqua e poi risalire. Piove: la strada argillosa è uno scivolo, e bisogna camminare sul lato dove l’erba fa da tappeto. Attraversiamo una frazione dove c’è una fontana dell’acquedotto e padre Giangi si avvicina per fare la immancabile prova rubinetto ma…stavolta ci sono delle persone che stanno riempiendo i secchi…è la prima volta che vedo una fontana utilizzata, c’è addirittura la fila!

Man mano che camminiamo spuntano da ogni parte ragazzini e bimbi, che come nella favola del pifferaio magico, crescono di numero ci seguono.

Ridono e corrono nel fango coi piedi nudi, superandoci e poi tornando indietro…Piove, ma non importa niente a nessuno..e mentre pattino sul terreno il signore venuto con noi e che ha un ombrello vuole assolutamente ripararmi e mi sostiene perché non cada. Lui con una giacca a vento lacera sopra pantaloncini corti, col cappello e i piedi nudi nelle pozzanghere, fa le acrobazie perché la mia testa sia sempre coperta… mi sento davvero di una indegnità incredibile… Attraversiamo il ponticello di legno sopra un laghetto, mentre i bambini passano dentro l’acqua di corsa. La strada non è agevole e per salire sopra la collina si scivola..arriviamo finalmente al pianoro dove sorgono le due uniche aule in cui attualmente consiste il Liceo. Entriamo in un ambiente che è standard come al solito: i banchi di legno con le panche, le imposte di legno senza vetri, sul lato corto la lavagna incorporata nel muro lunga quanto la parete…Intorno c’è terreno libero, e qui saranno costruiti i nuovi spazi. Ci sono anche due latrine a secco, e ne usufruiamo.

Intanto è calata anche la nebbia. Lorenzo e Valentina che sono sempre con noi, con tutti questi bambini si trovano nel loro habitat naturale.

Certo, il contrasto è stridente: noi con le giacche impermeabili, loro con un vestito sopra l’altro per ripararsi almeno dall’umidità..e mentre Elide Giangi e Aldo discutono col sindaco, Lorenzo comincia a inseguirli per acchiapparli e loro scappano in tutte le direzioni ridendo e gridando il nome che hanno imparato: LORENZO!!!

Sarà per la nebbia e la poggia, sarà che fino a ieri Lorenzo non lo conoscevamo e ora è qui che corre e gioca… non sembra nemmeno di essere in questo mondo. E’ una scena poetica e commovente…mi fermo a contemplarla… la filmo col cellulare.

Dobbiamo assolutamente riprendere il viaggio: i bambini ci seguono perché quando chiedevano le bonbon Irene ha detto loro (si fa per dire, detto…) che le aveva nel pullmino. I piccoli non vedono l’ora di arrivare e corrono avanti. Devono avere i piedi prensili perché non scivolano. Invece io anche nella discesa sono scortata dal mio cavaliere lacero e allegro che continua a ridere. Irene arriva..l’assalto alle caramelle. I bambini si affollano addosso al pullmino parcheggiato bordo pozzanghera, cercando di conquistare il primo posto.

Infine il nostro gruppo si ricompone, chiudiamo il portellone e via. Riaccompagniamo il mio cavaliere dove lo avevamo preso, e lasciamo il sindaco a casa sua, a qualche chilometro di distanza. Proseguiamo per Fianarantsoa che è oramai buio: la strada è terribile, buche profonde 40 cm per cui è necessario fare lo slalom utilizzando anche la corsia del senso di marcia opposto. La polizia ha messo diversi posti di blocco e veniamo regolarmente fermati…del resto questa è l’unica strada del Madagascar da controllare!

Passiamo davanti all’ingresso del parco di Ranomafana, Valentina e Lorenzo vorrebbero scendere qui e proseguire a piedi nell’interno dove ci sono delle strutture alberghiere, ma al posto di blocco davanti all’ingresso, i poliziotti che si scaldano intorno a un fuocherello li sconsigliano vivamente. Quindi proseguiamo tutti insieme fino in città e li lasciamo al centro Soafia, che assomiglia pallidamente a un centro commerciale europeo. Qui c’è un albergo di standard occidentale.

Ci salutiamo e ci scambiamo gli indirizzi email, poi ci fermiamo a comperare il pane e il latte nel negozio lì a fianco. E finalmente, attraversata la città, arriviamo alla casa. Risaliamo una strada costeggiata da un alto muro di cinta, svoltiamo a destra e ci troviamo davanti all’ingresso. Padre Giangi scende a suonare il campanello: dopo qualche momento alcuni ragazzi arrivano e fanno scorrere lateralmente a mano il cancello per farci entrare.

Parcheggiamo davanti alla porta d’ingresso, e li a fianco vediamo tutte le ciabatte dei ragazzi ammonticchiate, dato che entrano in casa scalzi. Appena varcata la soglia un grande salone pieno di tavoli, e di fronte le scale che portano al piano superiore. La casa sembra vuota, ma sentiamo un canto corale all’unisono, armonioso..i ragazzi escono dalla sala studio e ci vengono incontro, salutandoci uno per uno. Sono molti di più di quelli che immaginavamo ci fossero: non solo gli studenti che devono affrontare gli esami, ma anche quelli delle classi intermedie, che aspettano i risultati dell’anno appena concluso. C’è anche Bruno, l’educatore, e la cuoca.

Ci sistemiamo al secondo piano, in una delle camere dei ragazzi: ci sono due coppie di letti a castello in ciascuna, con un tavolo per studiare. Le valigie vanno sotto i letti; i bagni sono comuni. A piano terra, oltre al grande salone, c’è la stanza di Giangi, la sala studio, la biblioteca, le docce e la cucina per noi. La cucina dei ragazzi è a fianco della casa.

Ci hanno preparato la cena, per fortuna: mentre mangiamo i ragazzi si presentano e noi facciamo altrettanto. Poi i ragazzi vanno a letto mentre noi ci tratteniamo per discutere la situazione dell’acquedotto di Andrianarivo est, che è stato chiuso e per il quale occorre trovare una soluzione.

Venerdi, 25 luglio

Facciamo colazione con la casa deserta: i ragazzi sono in piedi dalle 4, hanno fatto colazione, preparato il pranzo, rassettato le camere e poi a piedi si sono avviati nelle rispettive scuole. Anche noi andiamo in città, ma col pulmino, perché la casa famiglia è su una collina, non proprio vicina al centro. Ci fermiamo un’oretta in un internet point per riprendere I contatti col mondo, mail, whats app…invio le foto scattate nei giorni scorsi e da ultimo quelle di ieri sotto la pioggia a Tsarafidy. Facciamo la spesa in un supermercato dove vendono cose occidentali, e infatti troviamo diversi vasà, cioè bianchi.

Poi raggiungiamo Giangi da Hanitra e Haja. Hanitra è la figlia di Michel e moglie di Haja. Hanno tre bambini che in questo momento sono in vacanza dagli zii. Hanno un negozio che vende un po’ di tutto, e da lì, passando dal cortile sul retro, si sale in casa. Aldo e Elide sono andati in cerca di vasi grandi da portare a Ihosy lungo la strada che ha diversi negozi: introvabili.

La casa di Haja e Hanitra è molto diversa da quella del villaggio di Manarinony: siamo in città e sembra quasi di essere in Italia. Padre Giangi è seduto nel salottino mentre arriva Michel che, come deciso ieri sera, è stato al ministero dell’acqua a chiedere che intervenga sul sindaco di Andrianarivo est per risolvere la vicenda dell’acquedotto. Il ministero si è impegnato a fare quanto richiesto…Usciamo tutti col nostro mezzo, facciamo benzina, andiamo al mercato, con l’obiettivo di comperare il peperoncino, guidati da Hanitra, che è venuta con noi appositamente. Nella piazza in cui parcheggiamo c’è una banca con il bancomat, e persone in fila a ritirare i contanti. Mi sembra una cosa così fuori luogo, così estranea al Madagascar…il divario fra villaggi rurali e città è abissale.

Il mercato comincia sulla piazza e invade le strade circostanti. Si vendono soprattutto generi alimentari: verdure, pesce, carne, tutto portato dai contadini e soprattutto dalle donne che abitano nei villaggi e che come abbiamo visto fare decine di chilometri a piedi con grosse ceste posate sulla testa, per ricavare qualcosa dai loro magri raccolti e dai loro animali. Cipolline, aglio, rafani, cavolfiori, pomodori, sacchi di legumi di svariate tipologie, e frutta: papaia, ananas, mandarini. Il tutto con un ordine e una grazia che fanno dimenticare che la maggior parte dei prodotti è stesa direttamente per terra, su teli o stuoie o raccolta in cesti. I polli con le zampe legate aspettano il loro destino, mentre i tacchini passeggiano e fanno la ruota.

Osserviamo le persone e cosa acquistano: un bambino con la sua mamma indossa un accappatoio come soprabitino…

Arriviamo al banco del peperoncino. In realtà ce più di una bancarella e diverse qualità di peperoncini. Ne acquistiamo quindi un po’ da una parte e un po’ dall’altra: ce li misurano con la kapoka, e li mettono in sacchetti di plastica.

Giangi ci telefona per dirci che ha finito le sue commissioni, è di ritorno e ci aspetta.

Per uscire attraversiamo la sezione del mercato dove c’è il settore dell’abbigliamento e dei casalinghi, con vasi e contenitori di plastica di ogni genere, tranne quelli grandi che cerchiamo per Ihosy, le grandi pentole e tante macchine da cucire.

Riaccompagnata a casa Hanitra ci avviamo a Andoharanomaitso con tre ore di ritardo sulla tabella di marcia.

Passiamo davanti alla stazione dei treni: da Fianara parte l’unica ferrovia del Paese che arriva fino al mare, Manakara, attraversando l’ultima foresta pluviale malgascia rimasta. La ferrovia venne costruita dai francesi durante la colonizzazione ed è rimasta ancora quella. Fuori della stazione c’è con un vagone che sembra antico ma forse non è così diverso da quelli ancora in uso! 

Usciamo dal centro abitato attraversando il fiume e passando vicino a una fila di pire fumanti di mattoni, alle risaie coltivate in parte a ortaggi, alla fiera dei buoi. Imbocchiamo una strada laterale, naturalmente sterrata, che sale verso l’interno. Percorriamo diversi chilometri, quanti non so misurarli perché la distanza viene moltiplicata come al solito dalla pessima qualità della strada, e costeggiamo dei massicci molto particolari, non aguzzi ma arrotondati, e la pietra stondata affiora, disseminate anche sul terreno piano. Gruppi di case in mattoni e tetto di paglia, gente che lavora nelle risaie a terrazze immersa nell’acqua fino alle ginocchia, o meglio nel fango. Davanti a noi un taxi brousse con due passeggeri sul tetto. Nonostante il cielo coperto è uno scenario incantevole.

Fuori del paese ci attendono due donne una delle quali è la sorella di Renè. Renè è il responsabile dell’allevamento di Ihosy che incontreremo fra qualche giorno, e questo è il paese dove è nato e dove abita la sua famiglia. Le signore salgono sul pullmino con noi.

Eccoci di nuovo in un villaggio di terra rossa: rosse le strade, rosse le case. Facciamo un giro in questo centro che, come Manarinony, a parte l’accoglienza festosa iniziale è deserto.

Qui abita da 11 anni un gesuita italiano. Lo troviamo intento a zappare l’orto: ci fa accomodare nella sua casa, al primo piano, in un ambiente che assomiglia a un ufficio parrocchiale o a una chiesa domestica, con delle panche davanti a una cattedra o altare.

E’ in Madagascar da 46 anni e la sua visione dei malgasci è molto negativa: se si rompe la loro testa con una mazza si rompe la mazza, non la testa! Intorno al balcone al secondo piano della sua casa c’è il filo spinato. Siamo piuttosto sconcertati..cosa si può costruire con questi sentimenti…?

Attraversiamo una zona del paese cadente e abbandonata e arriviamo allo spiazzo dove si trova l’ospedale. Si tratta in realtà di una casa con degli stanzoni: in quello centrale ci sono tre uomini seduti per terra sulle stuoie, in un letto una bambina. A fianco a lei appesa a un chiodo la boccia di una flebo. All’aperto c’è una cucina dove i parenti possono preparare il cibo per gli ammalati. Non avevo riflettuto sul fatto che in queste realtà in cui l’utilità dell’ospedale è praticamente nulla non ci siano le cucine o un servizio mensa.

Nella struttura di fronte viene ospitata la sezione di ginecologia. Ci accoglie una bellissima ostetrica, sorridente e radiosa, che ha reso allegro il suo ufficio buio con cartelloni colorati che illustrano il servizio. C’è anche uno schedario ben ordinate! Anche se nella assoluta miseria questa parte dell’ospedale gestita da lei è assolutamente più dignitosa dell’altra. Si vede che tutto l’amore che mette nel suo lavoro fa la differenza. Ci spiega che qui arrivano a partorire le donne, accompagnate da tutta la famiglia, mariti e altri figli percorrendo a piedi decine di chilometri. Ci mostra la sala travaglio e parto e gli strumenti dei quali dispone. Nulla di paragonabile a quanto abbiamo nei nostri paesi…civili.

Apre poi una porta sull’unica stanza, dove sono ricoverate le partorienti: ci sono due donne e sedute a terra intorno a loro, le famiglie: tanti bambini, alcune donne, i papà. Le mamme due giorni fa hanno dato alla luce un bambino (maschio in malgascio di dice conduttore di buoi) e una bambina (colei che trapianta il riso). Sono quinto e sesta di una fila di altri fratelli. Le donne hanno mediamente sei figli ciascuna. Una di loro ha percorso 16 chilometri per venire a partorire. I piccoli sono avvolti nelle coperte come fagottini: ce li porge e ce li mette fra le braccia nella commozione generale. Prima di congedarci consegniamo alla ostetrica qualche vestitino da neonato: ci abbraccia e ci ringrazia per essere venuti fino a qui. Irene le racconta che vorrebbe anche lei fare l’ostetrica, e lei la invita a tornare qui ad aiutarla.

Giangi non è entrato con noi, ma è rimasto fuori a guardare un cantiere: con i fondi della comunità europea si sta costruendo il nuovo ospedale. E’ molto grande, e tutto questo cemento armato sembra fuori contesto rispetto all’ambiente. Chissà se ora che scrivo, a distanza di due anni, è stato completato ed è in funzione…..

Passiamo di fronte al municipio, alla chiesa, alla caserma, alla piazzetta dove due bambini giocano con uno slittino.

Da questo paese provengono alcuni dei ragazzi della casa famiglia, e i genitori, insieme alla famiglia di Renè, ci hanno preparato il pranzo. Saliamo al secondo piano di una casa molto più comoda di quella di Manarinony: in una camera da letto è stata allestita una lunga tavolata apparecchiata! Mangiamo quindi seduti e con noi si siedono anche le donne. Il riso non manca mai come anche le verdure e la carne di pollo e zebù. Per noi ci sono le bevande occidentali.

La conversazione si concentra sui ragazzi della casa famiglia. Giangi dice che lunedi torneranno a casa dopo aver concluso l’anno scolastico: grosso modo già si sa chi è stato promosso e chi no. Quanto agli studi universitari, UnicoSole dà il contributo solo per tre ragazzi che devono effettivamente iscriversi e certificare l’avanzamento negli studi. Ribadiamo la necessità di incoraggiare I figli a intraprendere studi tecnici per trovare lavoro all’indomani degli studi superiori senza affrontare l’università. Nell’ammissione alla casa famiglia preferiamo i bambini di prima media che possono mettersi a livello nello studio; se sono più grandi, le scuole superiori fanno difficoltà a accettarli sapendo che hanno studiato nei villaggi, dove la qualità dell’istruzione è peggiore. Non è semplice portare avanti la comunità della casa famiglia perché i ragazzi vengono da luoghi diversi e hanno età diverse, ma a differenza della famiglia dove i fratelli litigano, nella casa i ragazzi sono solidali, si aiutano a vicenda, condividono tutto, si prestano anche i vestiti: se fossero cattivi sarebbe impossibile gestirli. I genitori chiedono cosa serve per entrare nella casa: occorre fare domanda, presentare un dossier e dare un contributo in riso. Non è un extra perché i ragazzi mangiano anche quando sono a casa.

Aldo descrive la realtà italiana. Anche da noi la situazione è complessa e non tutti coloro che studiano trovano un lavoro adeguato alle inclinazioni e al percorso formativo che hanno seguito. Claire, la sorella di Renè, ci porta la sua testimonianza di laureata, insegnante non assunta dallo Stato: ha aperto un asilo e fondato una cooperativa di lavoro artigianale per la promozione delle donne.

I genitori dei ragazzi della casa raccontano che i figli lasciano il paese per andare lontano dalla famiglia a studiare, perdendo i punti di riferimento e le abitudini della vita in casa e possono essere disorientati. Se falliscono e vengono bocciati non possono rimanere nella casa famiglia per l’anno successive e questa è per loro una grande frustrazione. Elide spiega che UnicoSole sostiene volentieri i ragazzi purchè siano consapevoli di essere molto più fortunati dei loro coetanei e quindi si impegnino nello studio e imparino a gestire il loro tempo.

Tutti ci augurano ogni bene e ci ringraziano per i consigli che abbiamo dato loro per l’educazione dei figli. Ci regalano cappelli a falde larghe e un vassoio di carote allineate su di un vassoio, tutte in file sovrapposte e con il ciuffo verde come fiocco: un vero capolavoro! Elide si innamora di una statuetta di legno che raffigura uno zebù stilizzato, con la tipica gobba e le lunghe corna e quindi le viene regalata. Vorrebbero portarci tutti a visitare le loro case…uscendo notiamo un pannello fotovoltaico appoggiato in terra con un filo elettrico …qui la vita è migliore che a Manarinony…Ci congediamo fra decine di mani e sorrisi che ci accompagnano fino a che svoltiamo per imboccare la strada del ritorno.

Per via incontriamo un ragazzino con una coppia di zebù grandi e qualche piccolo, e nelle mani un cerchio e un bastoncino. Ci fermiamo, scendiamo e Giangi lo interroga: sta riportando a casa gli animali dopo averli fatti pascolare. Gli chiede anche di mostrarci come si gioca con il cerchio e lui lo posiziona perpendicolare al terreno e lo fa rotolare spingendolo con il bastoncino.

Lo guardo e penso a mio padre: oggi è l’anniversario della sua partenza. Anche lui da bambino portava gli animali al pascolo da solo e giocava col cerchio…la scena di 70 anni fa, di un bambino su per giù degli stessi anni e della stessa magrezza, non deve essere stata molto diversa da quella che abbiamo ora davanti agli occhi…

Dopo giorni di cielo incerto nuvoloso e anche piovoso, è uscito un bel sole. I raggi obliqui che promettono il tramonto accendono di una luce particolare il paesaggio, stagliando le montagne sullo sfondo del cielo. Contemplo queste immagini e vorrei fissarle per sempre nella mente. Queste ragazzine hanno aperto il negozietto alla finestra della loro casa.

Ci fermiamo ad ammirare i colori e scattare qualche foto e intanto incrociamo un taxi brousse stracarico, anche lui arrampicato su queste strade, con le biciclette che pendono sui lati. I passeggeri appollaiati sul tetto insieme con le casse di acqua ci gridano dietro qualcosa che ovviamente non possiamo capire…ridono!!! Ci prendono in giro.. !!

Incontriamo un papà con due bimbi piccoli. Il più grandetto corre via spaventato da noi vasà! Irene interviene con le caramelle che sono sempre convincenti, e il bimbo si avvicina… Mentre riprendiamo la strada vediamo un movimento nell’erba alta: immaginiamo si tratti di un animale… invece spunta fuori una bambina. Spaurita, con gli occhi spalancati.. Irene la chiama dal finestrino mostrando le caramelle. Allora dall’erba salta su una seconda bimba più piccola! Il sole tramonta velocemente. Il panorama è struggente.

Ci fermiamo alla casa famiglia di Padre Maurice a salutare lui e i ragazzi, e a verificare la situazione dei computer che avevamo acquistato un paio di anni fa per il progetto di Padre Debrè. Decidiamo che alcuni vengano portati alla casa di Rainay: le due case famiglia sono vicine.

A casa mentre prepariamo la cena, Aldo e Irene fanno lezione di italiano ai ragazzi!!! Mangiamo nella sala grande tutti insieme. Dopo cena Elide e Giangi si fermano a parlare con gli educatori che vogliono lasciare l’incarico e io preparo le cartoline acquistate a Tanà, da spedire in Italia agli amici di UnicoSole.

Sabato, 26 luglio

Il sabato i ragazzi non vanno a scuola. Il nostro programma prevede la visita a Sonierama, una delle comunità di Padre Maurice, presidente dell’associazione Miaraka Aminy. Prima approfittiamo del sole per fare il bucato: sul retro della casa ci sono i lavatoi e anche i ragazzi fanno la stessa cosa. Nel grande spazio davanti alla casa sono piantati due canestri da basket, ma i ragazzi giocano a calcio.. a piedi nudi! Aldo si unisce a loro.

Quando siamo pronti, Irene dice di non sentirsi ancora bene e di voler rimanere qui.

Lungo la via Giangi ci mostra un frutto particolare che si trova solo in Madagascar, sferico e con tanti puntini in rilievo.

Si chiama APALIBE.

A Sonierama troviamo le ragazze in divisa che lavorano nell’orto. Il terreno è ben tenuto, organizzato in file ordinate dello stesso prodotto, ortaggi e alberi da frutto, tutto curato! I ragazzi invece sono attorno al nuovo pozzo: uno di loro è sul fondo.

C’è anche il tecnico della ravitsara, che ricava gli olii essenziali dalle foglie.

Ci racconta che il prodotto non ha più mercato. Giangi chiede perché allora 5 anni fa a Mahaditra l’associazione Miaraka Aminy ha avviato questa attività: 5 anni fa c’era chi acquistava. La ravitsara, cioè la canfora, viene coltivata anche sulle coste del Madagascar ma la qualità del prodotto coltivato sul mare non è buona. La società belga che acquistava l’olio quindi si è rivolta a un altro Paese, non considerando quello prodotto sugli altipiani che è di qualità migliore. Ordiniamo sia le creme che l’olio da portare in Italia.

Saliamo al piano superiore della casa: dal balcone abbiamo la panoramica dell’appezzamento. C’è anche un pollaio con le galline: la vendita delle uova contribuisce alle spese di mantenimento della casa. In una costruzione laterale ci sono le stanzette. Padre Maurice le affitta agli universitari, che raggiungono la città in bicicletta. Si danno da fare per guadagnare qualcosa preparando e vendendo dei dolcetti.

Sulla via del ritorno attraversiamo il fiume.

Le donne fanno il bucato e stendono sull’erba i panni colorati. Ci sono anche uomini che strizzano, e i bambini. Quelle macchie di colore sul verde sembrano un quadro impressionista.

Prima di rientrare ci fermiamo al supermercato occidentale a fare la spesa e a comprare gli ingredienti delle torte che prepareremo nel pomeriggio: domani ci sarà la grande festa di fine anno!!!

Facciamo ancora un giro per la via principale di Fiana a cercare questi grandi, introvabili vasi. In compenso troviamo le sartorie di strada.

I ragazzi avevano chiesto a Giangi di celebrare la messa e si era fissato l’orario alle 11, ma non facciamo in tempo, perchè è già ora di pranzo, e si rimanda al pomeriggio. Intanto c’è da sistemare la legna, e i ragazzi si passano i pezzi formando una catena. Sono bellissimi!

Poi apparecchiano i due lunghi tavoli che occupano il refettorio per tutta la sua lunghezza, mentre noi occupiamo il lato corto in fondo.

Alle 13 arriva in motorino il sindaco di Tsarafidy per preparare il testo della convenzione, e si unisce alla tavolata.

Dopo pranzo Giangi, Elide e Michel riprendono la riunione con il personale della casa. Intanto Aldo gioca a pallone coi ragazzi, e poi arbitra, mentre Irene insegna alle ragazze a giocare a rubabandiera e un due tre stella e mondo.

Alcune ragazze vogliono giocare anche loro a pallone e scendono in campo.

Con altre prepariamo le torte con la ricetta che ci ha dato Elide. Ne facciamo diverse varianti, con e senza cioccolata. La ragazze imparano come si fa e compiono a turno le diverse operazioni: montare le uova con lo zucchero (con la frusta), aggiungere la farina (senza far venire I grumi), ammorbidire col latte (senza farla diventare troppo liquida), aggiungere il cacao e per ultimo il lievito. Infine mettiamo il composto negli stampi (sette!) e accendiamo il forno della cucina la ragazze “occidentale” che lavora di rado. Soprattutto non lo conosco, e può cuocere solo una torta alla volta.

Intanto ci prepariamo per la messa. All’ultimo piano della casa c’è una cappella, un ambiente molto grande con le panche sulle quali stanno sedute comode una cinquantina di persone.

C’è anche una Madonna in legno simile a quella che Giangi ha ordinato a Ambositra. All’ultimo piano ci sono anche altre camere e un ambiente grande come la cappella, che funge da sala gioco.

La messa è molto partecipata: liturgia e letture in malgascio, anche se Giangi in pratica celebra una messa bilingue.

Faccio su e giù dalla cucina per infornare e sfornare..l’ultimo dolce alle 7.

Mentre prepariamo la cena, i ragazzi fanno ancora lezione di italiano con Aldo e Irene. Dopo cena durante la riunione Bruno e Mme Zoe: comunicano la decisione di lasciare l’incarico. Bisognerà anche dirlo ai ragazzi.

Stasera c’è la luna piena. Soprattutto c’è un cielo stellato il cui splendore è appannato solo dalle luci fuori della casa. Le stelle sembrano vicine e luminose e la via lattea una scia bianca che attraversa la volta scura.

Domenica, 27 luglio

Facciamo colazione tutti insieme nel grande salone, e poi i ragazzi si presentano, uno alla volta. Ci raccontano da dove vengono, quanti sono in famiglia, da quanto tempo sono nella casa, quale scuola fanno e cosa sognano per la loro vita…e poi ci interrogano! Ci chiedono come vivono i loro coetanei italiani, e se ci piacerebbe vivere qui. Parlano poi delle loro vacanze dato che domani torneranno a casa: porteranno con loro i quaderni per ripassare, e chiedono se anche in Italia ci sono le vacanze scolastiche in estate.

Poi Elide, Giangi, Aldo e Irene incontrano i ragazzi che non hanno superato l’anno scolastico: la regola impone che chi non è promosso non può essere ammesso l’anno successivo. La ragione è che i ragazzi ospitati nella casa famiglia vivono in una condizione di massimo favore per concentrarsi nello studio e solo questo viene richiesto loro. L’analisi delle situazioni personali dimostra che i ragazzi avevano già avuto campanelli d’allarme: erano stati rimandati lo scorso anno e al primo quadrimestre di questo avevano avuto un rendimento scarso. Avrebbero quindi dovuto impegnarsi al massimo per recuperare.

Intanto gli altri ragazzi, sotto la guida della cuoca e di Bruno, preparano il pranzo: in cucina ai fornelli, seduti sul marciapiede della casa a tagliare le verdure, nel salone ad apparecchiare..

Arriva poi Jean Claude, l’impresario che si occupa della manutenzione annuale della casa, e Giangi, Elide e Michel verificano i lavori necessari.

Sono le 11: la messa era fissata per le 10, ma.. mora mora… l’orario elastico è un must…durante la messa a Bruno e a Mme Zoe daremo una busta con la “liquidazione” e mi chiedono di scrivere una frase di congedo e ringraziamento.

La messa è molto toccante. Ci sono anche Michel e Hanitra: le letture sono in parte in italiano, in parte in malgascio. I ragazzi hanno preparato dei canti che si inseriscono in molte parti della celebrazione. Sono davvero belli: li ho registrati.

Dopo la comunione, gli studenti che devono affrontare gli esami vengono benedetti tre volte con un ramoscello di ulivo immerso nell’acqua santa: la prima volta da Giangi, la seconda da Michel, la terza da Elide.

E’ il momento del congedo da Mme Zoe e Bruno: l’incarico è affidato a Elide. E’ un momento intense, di grande commozione. Poi i ringraziamenti. Parlano i presidenti delle due associazioni e Michel ricorda i 10 anni della fondazione di Rainay.

Poi la festa. A tavola con noi, oltre a Hanitra e Michel, c’è anche l’impresario con sua moglie. Ci racconta di aver preso come stagisti alcuni ragazzi che si sono diplomati alle scuole tecniche. Durante il pranzo ci sono altri momenti di

commozione: Hanitra ricorda la sua mamma, che è morta 10 anni fa, e il suo amore per i ragazzi. Da questo è nata l’idea di fondare l’associazione.

Durante le lezioni di italiano, Aldo si è fatto insegnare qualche frase in malgascio e le legge ora per salutare i ragazzi.

Poi tutti fuori: nel pomeriggio di sole, il piazzale è pieno di gente. C’è la gioia di stare insieme, per l’anno concluso, per il ritorno a casa, ma anche la tristezza dei momento di congedo, soprattutto per Bruno e M.me Zoe, e per i ragazzi che non potranno rientrare il prossimo anno.

Anche noi ci prepariamo a partire: la prossima mèta è Ihosy. Haja aveva un altro impegno di lavoro come autista di Cinzia e di un’amica che sono venute in vacanza qui in Madagascar. Al suo posto ora abbiamo Julienne che comincia a caricare il tetto del pullmino. I bagagli sembrano moltiplicarsi, eppure le scatole preparate a Antananarivo e arrivate qui prima di noi ormai sono state svuotate. Abbiamo però acquistato la balla di vestiti per i carcerati di Ihosy e per gli operai dell’allevamento.

Sembra sempre di stare lì lì per partire, ma il momento si dilata sempre. Saliamo e scendiamo dal pulmino diverse volte perchè i saluti non finiscono mai. Fino a che, davvero, prendiamo posto, chiudiamo il portellone, attraversiamo il cancello. Ho l’impressione di lasciare un luogo così diverso da quello in cui ero entrata solo qualche giorno fa e divenuto caro in così breve tempo.

Si sta facendo sera e il viaggio non è breve. Subito una sosta a Fiana, ed è già l’imbrunire, per prendere con noi la mamma di Renè che raggiunge il figlio a Ihosy. Mentre la aspettiamo per incontriamo una donna che acquista e rivende le uova dell’allevamento di Ihosy.

Il sole tramonta e poi sparisce dietro le montagne dopo averne disegnato i profili: viaggiamo col buio.

Ci fermiamo per comperare le papaya e poi più avanti in un villaggio lungo la statale: c’è un uomo che fa luce nel buio con una torcia da minatore legata intorno alla testa. Giangi si accorda con lui per l’acquisto della manioca che ritireremo al ritorno e porteremo alla casa famiglia per il prossimo inverno.

Approfittiamo di questo tempo di viaggio per pensare al calendario del 2015.

Arriviamo a destinazione alle 9 di sera. Davanti all’albergo ci aspettano Renè e la moglie. Dopo i saluti calorosi, ceniamo e ci sistemiamo nelle camere. L’albergo è molto dignitoso: la hall è organizzata al modo europeo e c’è persino la televisione. La cucina a quest’ora è chiusa, ma Padre Giangi aveva fatto preparare la cena: riso e pesce al pomodoro, molto gustoso: la tavola è apparecchiata!

Lunedi, 28 luglio

Colazione molto gustosa in albergo e poi giro all’esterno: c’è un bellissimo frangipane fiorito.

All’ingresso dell’allevamento, al lato del grande cancello in ferro, campeggia l’insegna TSARA ATODY. Parcheggiamo sotto un albero, nel grande spiazzo antistante le costruzioni. Ce ne sono diverse tutte nello stesso stile, in cemento e mattoni, tegole e gronde, e file di finestre chiuse da inferriate: sembrano scuole più che allevamenti! Due piani con stanze nelle quali sono ospitate galline raggruppate in base all’età, dai pulcini alle pollastre alle galline. L’attività è molto interessante e bene organizzata. C’è il personale assunto proprio per la gestione dell’allevamento, ma tutti collaborano, piccoli e grandi, ognuno con il suo compito. Tutto è numerato: le stanze dove abitano le galline, i secchi di raccolta delle uova, la fila dove si trovano i cartoni di confezionamento delle uova.

Ci fermiamo innanzitutto a vedere come le uova vengono schedate in funzione della stanza di raccolta. Vengono portate qui in secchi numerati con il numero della stanza. La raccolta viene fatta tre volte al giorno. Vengono poi contate e disposte nei cartoni per la vendita in città. La contabilità delle uova viene annotata in modo puntuale in un diario quotidiano scritto a mano, fitto di numeri. Questo consente di verificare l’andamento della produzione complessiva e delle singole stanze.

A fianco alla stanza di organizzazione delle uova ci sono i magazzini del mangime. Nel porticato coperto ci sono gli attrezzi e le macchine per sminuzzare i cereali. Giangi ci spiega tutte le fasi della preparazione del mangime: la composizione varia a seconda dell’età degli animali. Il deposito del granturco è chiuso da una fila di assi di legno che si smontano man mano che la quantità diminuisce e il livello si abbassa. Per ora che il magazzino è pieno c’è solo una finestrella di accesso e per affacciarci ci arrampichiamo sulla scaletta a pioli. Una lampadina illumina un mare di mais!

Prima di visitare le padrone di casa dobbiamo passare la scuola delle scarpe nel disinfettante. Anche se le galline sono vaccinate e curate bisogna prevenire qualunque possibile infezione.

Le stanze delle galline si trovano sia al piano terra che al primo piano di entrambi gli edifici posti perpendicolarmente a quello degli uffici e i magazzini. In ogni stanza ci sono animali della stessa età. Le galline sono libere, hanno a disposizione trespoli per riposare, acqua e cibo. Le osserviamo dalle finestre, ma una delle stanze viene aperta da un lavorante e le galline si avvicinano tutte alla porta. Dal secondo piano siamo abbastanza in alto da vedere il panorama: l’allevamento di Renè, il bacino dell’acqua realizzato all’inizio dell’anno, e gli uomini al lavoro nel terreno acquistato lo scorso anno da Giangi: stanno tirando su il muro di cinta.

Le stanze vengono pulite periodicamente una alla volta. Le galline vengono quindi spostate in una stanza di passaggio dedicata, e vengono anche fatte razzolare all’aperto. Naturalmente anche nell’allevamento ci sono le fontane!

Ritorniamo alla zona gestionale per vedere come le uova vengono commercializzate. Quelle da vendere in città vengono caricate sulle biciclette dentro ai cartoni, protette da una intelaiatura di assi. Quelle destinate al mercato del sud devono invece viaggiare sui taxi brousse per parecchie centinaia di chilometri e vengono quindi sistemate da mani esperte in grandi casse, adagiate nella pula, così da non rompersi. Ci sono infine le uova rotte: queste vengono vendute direttamente qui all’allevamento.

In mezzo a tutta questa attività, i bimbi giocano a girotondo, a acchiapparella, a mosca cieca con Julienne, rallegrandoci con le loro grida e le loro risate.

Attraversiamo poi il cancello interno che separa l’allevamento dell’associazione da quello di Renè. L’organizzazione del lavoro è la stessa, ma la produzione e la contabilità sono tenute separate.

Renè ha anche un allevamento di maiali che pensa di spostare perché la puzza disturba le galline e la loro produzione. Lo spazio circostante è ampio e pieno di alberi da frutta e da fiore: ci sono degli ibiscus enormi!

Gli operai entrano e escono spingendo carretti dove sono caricati sacchi di mangime.

Qui abita anche la famiglia di Renè: in Madagascar per “famiglia” si intende la famiglia allargata a quelle dei fratelli e delle sorelle. Ci sono quindi molte donne e bambini. La mamma di Renè tiene in braccio Martino, l’ultimo arrivato nella comunità familiare. Le donne stanno preparando da mangiare in grandi pentole sui fornelli sia all’esterno che dentro a cucina: sarà un pranzo di festa per moltissime persone: noi, la grande famiglia di Renè e tutti gli operai, sia quelli dell’allevamento sia quelli che stanno costruendo il muro del terreno di Giangi.

Andiamo a vedere il nuovo edificio (chiamarlo pollaio mi sembra davvero riduttivo) costruito da Renè per il suo allevamento: è molto simile a quello dell’allevamento dell’associazione, un caseggiato a tre piani in mattoni e cemento suddiviso in stanze, con le file delle finestre, e le scale che portano al secondo e terzo piano. Lungo tutto l’esterno corre un balcone che dà accesso alle stanze. La costruzione è ancora vuota: deve essere inaugurata e poi bisognerà riempirla con gli animali. E’ proprio in una di queste grandi stanze vuote che si sta apparecchiando: sul pavimento ci sono le grandi stuoie. Nella stanza a fianco stanno preparando le stoviglie e tutto l’occorrente per la festa.

Durante il giro siamo stati scortati da uno stuolo di bambini che giocano e ridono. Tutti i bambini qui si divertono a farsi fotografare..si lasciano riprendere e poi di corsa all’apparecchio per rivedersi nei piccoli schermi..e ridono così tanto nel vedersi!

Dall’alto si vede tutta la valle e l’intero allevamento dell’associazione, con tutte le sue costruzioni , con tutte le sue costruzioni. E’ immenso!

Mi sembra di essere qui da chissà quante ore e invece ne sono passate meno di un paio.

Visitiamo il bacino idrico: è circondato da un muro che lo separa dal resto, anche per tenerlo in sicurezza. E’ stato realizzato nei primi mesi di quest’anno, preceduto dalla trivellazione del pozzo e dalla posa dei tubi. Durante il viaggio di marzo scorso i nostri amici hanno portato dall’Italia e montato la pompa a immersione e realizzato gli impianti idraulici di risalita dell’acqua dal pozzo al bacino e dal bacino alla distribuzione nell’allevamento. L’impianto funziona perfettamente, l’acqua è abbondante e serve entrambi gli allevamenti.

Andiamo ora a vedere il lotto di Giangi: ci sono 30 uomini impegnati nella costruzione del muro. Un mattone rosso di argilla sopra l’altro, in mezzo alle file la calce.

Il terreno confina con la parte meridionale dell’allevamento: da qui si vede il blocco centrale a due piani e il blocco laterale appoggiato al muro di cinta.

Siamo sul limitare della collina: si scopre la vallata, ed è magnifica. Anche se lo conosco oramai quasi a memoria, questo scenario non smette di emozionarmi. Il verde della vegetazione, l’acqua, le fornaci dei mattoni e gli uomini al lavoro.

Si vede anche una coppia di zebù che risale la collina, guidati da un bambino. Torniamo all’allevamento circumnavigando il terreno e il muro dal lato opposto, e su questo percorso incontriamo una famiglia di contadini, quella del bambino e degli zebù.

Andiamo poi a visitare i carcerati di Ihosy: è un appuntamento fisso di ogni nostro viaggio. Nel pullmino abbiamo gli abiti della balla che Hanitra ha separato fra cose da uomo, donna e ragazzo, e magliette, camice, pantaloni, le stuoie utilizzate come materasso per dormire, e il riso e la carne. Abbiamo anche un pallone nuovo.

Lungo la via c’è una siepe di cactus, legnosi e senza spine (almeno così mi sembra), spettacolare. Parcheggiamo sulla strada davanti a un caseggiato. Sulla porta dell’ufficio amministrativo del penitenziario sventola una tendina.

Il direttore non è lo stesso dell’ultima volta: ci informa che in questo momento nel carcere ci sono 260 detenuti tra cui 8 donne e 8 minori, la gran parte dei quali in attesa del processo. Ci fornisce la lista della spesa delle necessità, perché lo Stato provvede solo al cibo, esclusivamente manioca. Occorrono rubinetti nuovi, perchè quelli attuali sono rotti, non si chiudono e l’acqua scorre di continuo; tubi, scope, insetticida per disinfettare le camerate che sono invase da cimici, pidocchi, zecche e altri insetti, quaderni e matite per i ragazzi.

Attraversiamo un primo cancello e entriamo in un piccolo cortile. Qui c’è l’infermeria. Il personale ci racconta che l’ultima fornitura di medicinali era stata consegnata il 13 dicembre: manca tutto ma la necessità principale è quella di disinfettanti intestinali anti dissenterici.

Entriamo nel carcere attraversando un secondo cancello e un corridoio a gomito sovrastato da una torretta alla quale si accede con alcuni gradini: è la postazione da cui le guardie possono sorvegliare i detenuti. C’è anche un locale o meglio un buco dove dormono i guardiani: somiglia a una tomba etrusca, della lunghezza di una persona, scavata nella parete, senza nemmeno qualcosa che assomigli a un materasso, solo terra.

E finalmente ci siamo: nel piazzale i carcerati sono schierati come li ho visti tante volte nelle foto, al sole, scalzi, seduti a terra, con le ginocchia davanti al corpo. Dietro di loro la porta di entrata di una camerata, con la cancellata appoggiata lungo la parete.

Padre Giangi li rincuora: ce n’è bisogno. Basta guardarli per capire che le condizioni in cui vivono sono disumane. La maggior parte di loro è in attesa di giudizio da anni magari solo per aver rubato uno zebù. Due ragazzi con la chitarra intonano il canto: “libertà! Prima ero prigioniero, ora sono libero”. Anche stavolta ci chiedono del sapone per lavarsi e per fare il bucato. E il ragazzo con la chitarra corde nuove per sostituire quelle spezzate.e per fare il bucato.

Padre Giangi ritira il vecchio pallone ridotto a un cencio informe dello stesso colore della terra, e mentre consegniamo quello nuovo, chiede se hanno seguito i mondiali: non abbiamo nemmeno una radio!

Cominciamo a distribuire quello che abbiamo portato, per prima cosa le stuoie. Ci mostrano quelle su cui in mancanza d’altro continuano a dormire: brandelli.

Ci fanno vedere anche gli insetti che abitano sulle pareti delle camerate e la notte cadono dal soffitto sulle loro teste mentre dormono.

Apriamo gli scatoloni coi vestiti mentre i carcerati si mettono in fila per uno: prima le 8 donne e gli 8 ragazzi, poi gli uomini. Un ragazzo si avvicina ad aiutarmi ad aprire una scatola e mi chiede una camicia in particolare. A tutti gli altri diamo un capo ciascuno, come capita, senza possibilità di scelta, senza tenere conto della taglia o della necessità (una maglia piuttosto che un pantalone ad esempio). Qualcuno mi chiede due cose, ma non è possibile perché c’è chi rimarrebbe senza. Li indossano subito e vediamo anche che qualcuno se li scambia.

Si mettono poi nuovamente in fila per la distribuzione del il riso e della carne, sempre prima le donne, che hanno una cucina a parte. Ognuno cucina il suo riso, mentre la carne viene cucinata in comune.

Mentre sono in fila per la distribuzione, Giangi chiede ai ragazzini perché sono qui: 4 sono stati arrestati insieme per lo stesso furto.

Giangi ci chiama per vedere come sono i cameroni: Aldo entra subito, io sono titubante.

Quello che visitiamo ospita 95 persone. Senza finestre. C’è una parte centrale a livello terra e tutto intorno una parte rialzata dove ci sono le poche cose personali: a parte le chitarre, il piatto per mangiare e una pentolino per cucinare.

I detenuti si stendono per terra per farci vedere come dormono, uno addosso all’altro come tanti salami in fila. Ogni tanto durante la notte si girano dall’altro lato, ma devono farlo tutti nello stesso momento, quando il capo stanza batte le mani.

Le camerate vengono chiuse tutti i giorni alle 5 e mezza del pomeriggio, quando cala il sole, e vengono riaperte al mattino alle 7.30. Durante la chiusura vengono collocati dei bidoni di plastica, per bisogni durante la notte. Li vediamo parcheggiati sul piazzale, dietro alla camerata.  

Al centro del cortile c’è una costruzione aperta su tre lati: è la cucina degli uomini.

Nelle grosse pentole vediamo bollire la manioca in due pentole, a diversi stadi di cottura: uno per il pranzo e uno per la cena. Queste sono le famose pentole che si bucano spesso e che facciamo riparare, oppure comperiamo nuove. Stavolta però non serve. Chiediamo che la carne venga divisa in pezzi più piccoli così da poterla cuocere già tagliata.

La fontana centrale butta acqua perché il rubinetto non tiene, e così pure i lavatoi davanti ai bagni…i bagni sono stati realizzati dalla UE nel 2010 ma sono inavvicinabili per il fetore. Anche i rubinetti delle docce sono rotti.

Siccome è quasi ora di pranzo, qualcuno intanto cucina, non solo riso ma anche fagioli: sempre nel piazzale ci sono dei fornelli…singoli.

In sostanza la vita si svolge su questo spiazzo dove i detenuti sono liberi, almeno così sembra..non oso pensare cosa sia qui nel periodo delle piogge.

Visitiamo poi la sezione femminile, un piccolo cortile dove c’è la cucina e un pozzo al centro, rotto e coperto da un piatto rovesciato. La stanza, dato il numero minore delle ospiti, in proporzione è più spaziosa. 7 detenute sono in attesa di giudizio: due sono accusate di omicidio, le altre di furto. Una sola quindi sta scontando la pena. Il pozzo al centro del cortile è rotto ed è coperto da un piatto rovesciato. Una di loro ci chiede il sapone. Alcune hanno il viso dipinto di terra colorata, bianca o gialla, non so la ragione.

Facciamo una foto, tutti insieme, compresa la guardia donna.

Ci congediamo promettendo ai detenuti di tornare ancora prima di lasciare Ihosy, per portare quello che ci hanno chiesto. Perciò passiamo nuovamente dal direttore a chiedere di quantificare i rubinetti e darci il nome dell’insetticida. Servono anche le pompe per poterlo spruzzare..le prenderemo in affitto.

Nel pullmino raccogliamo dalle valigie tutti i farmaci di scorta per il nostro uso personale, e li consegniamo all’infermeria.

Mentre ci allontaniamo, una piccola folla aspetta di poter andare a trovare i propri parenti detenuti.

L’allegria di queste borse colorate stride con la desolazione di questo posto. Eppure anche qui dentro le persone ..sorridevano.

Torniamo all’allevamento, a casa di Renè dove siamo attesi per il grande pranzo al terzo piano del suo nuovo pollaio. Per ora è libero: i pulcini arriveranno ad agosto.

C’è tutta la famiglia, tanti bambini! Gli operai che lavorano nell’allevamento e quelli che stanno costruendo il muro sono davanti ai piatti in attesa di poter mangiare. Tutti seduti a terra sulle stuoie, ormai è divenuta normalità.

Si presentano uno per uno, nome, condizione, se sposato quanti figli…Irene annota tutto.

Il pranzo è a base di riso, carne di zebù e pollo, verdure..anche questa è normalità del nostro viaggio, grande eccezionale abbondanza in nostro onore!

Nel pomeriggio (come al solito non ho idea dell’ora che si è fatta) c’è la riunione tecnica coi responsabili dell’allevamento. All’improvviso il cielo si rabbuia e comincia a piovere..a stagioni invertite, qui d’estate è inverno!

La riunione dura parecchio. Abbiamo in programma di partire per il nostro giorno di vacanza al Parco Nazionale dell’Isalo. Anche Giangi si è convinto a venire con noi!

Prima di lasciare l’allevamento distribuiamo anche a ciascuno degli operai un capo di vestiario.

Quando ci avviamo è ormai l’imbrunire.

Il paesaggio è stupendo…attraversiamo un fiume e vediamo le donne sulla riva che fanno il bucato. Risaliamo la collina e vediamo dall’alto il panorama della vallata. Poi la strada diventa pianeggiante. Sulla destra ci sono degli edifici: sono stati costruiti nel 2003 per osservare l’eclissi e nelle intenzioni dovevano essere utilizzate anche dopo come struttura turistica. Invece è tutto abbandonato. Anche il sole ci sta abbandonando, ma ci offre uno spettacolo così emozionante.

Le immagini riprese delle macchine fotografiche possono solo ricordare quella meraviglia a chi l’ha vissuto attraverso i propri occhi.

Arriviamo a Ranohira: la temperatura è fresca! Ci accomodiamo nelle stanze dell’Hotel Orchidee e poi andiamo al ristorante dell’albergo. La cena è molto buona. Incontriamo anche alcuni turisti vazà, bianchi come noi.

A tavola parliamo ancora del calendario del prossimo anno, l’idea è quella di raccontare il Madagascar, la sua gente e le sue tradizioni..ci viene in mente di inserire qualche frase malgascia e quindi Padre Giangi interroga Michel per farsi raccontare detti e proverbi. Michel li annota su un quaderno di Elide. Alcuni non lo conosce nemmeno Giangi nonostante sia per per tre quarti malgascio!!, e si sorprende e cerca di tradurre il senso al di là della combinazione delle parole. E’ stata una cosa divertente, ma si è fatto tardi e domattina dobbiamo alzarci presto per il nostro tour..e così se la maggior parte delle frasi sono rimaste lì nel quaderno che Elide avrà di certo conservato, senza essere state tradotte.

Martedi, 29 luglio

Facciamo colazione nello stesso locale dove avevamo cenato. Giangi non c’è: si è alzato prima di noi per andare a dire messa. La giornata è coperta. Quando il don arriva lasciamo l’albergo e andiamo prendere i biglietti e a cercare una guida che parli italiano (infatti senza guida il Parco non si può visitare). Intanto osservo questa cittadina, alle soglie di uno dei numerosi parchi nazionali del paese: il suo aspetto turistico che la rende così diversa dagli altri centri che abbiamo visto finora e più simile a qualcosa di conosciuto. Poi ci avviamo. L’ingresso principale si trova sulla RN7.

Il parco è di oltre 80mila ettari: mentre attraversiamo una prateria, punteggiata da foreste secche vediamo avvicinarsi il Massiccio dell’Isalo (si dice Iscialo). La caratteristica di questo parco sono i canyon: i due principali sono quello dei topi e quello delle scimmie, abitato dai lemuri. Qui è possibile fare trekking e ci sono percorso di parecchi chilometri, ma abbiamo a disposizione solo la mattinata e quindi scegliamo il canyon Namazai, che porta alle piscine naturali, circa 2 ore di cammino: il percorso è disegnato su una pietra vicino al parcheggio.  

Mentre iniziamo la discesa per addentrarci nel canyon, alziamo lo sguardo verso la montagna che si staglia sopra di noi sul cielo azzurro: il sole nel frattempo ha dissipato la cappa grigia.

La roccia che scende perpendicolarmente nella valle è piena di striature verde brillante.

Il fogliame si fa più fitto e la luce non più accesa dal sole diventa ombra.

Incontriamo anche un luogo attrezzato per il campeggio, con spazi per le tende, tavolini di pietra riparati da tettoie e servizi igienici…occidentali !!!

Di campeggiatori ….solo tracce!

Ci incamminiamo lungo un ruscello fiancheggiato a destra e sinistra da due muraglioni di roccia sui quali si arrampica la vegetazione. Ovviamente la presenza dell’acqua favorisce la crescita delle piante anche perchè il sole può arrivare quaggiù solo dove le pareti si allargano.

La guida non parla un grande italiano e siccome invece Giangi parla un ottimo malgascio le parti si invertono. La guida parla e spiega in malgascio e Giangi traduce, e come al solito fa tante domande al nostro accompagnatore, sulla sua vita, la sua famiglia, il suo lavoro. Ci dice che il numero dei turisti è notevolmente diminuito. Saliamo e scendiamo seguendo il percorso, sentieri, gradini scavati nella pietra, attraversiamo il corso d’acqua utilizzando ponticelli di legno o i massi..ad ogni passo la guida ci mostra piante che vivono esclusivamente qui e le chiama per nome…questa è una palma particolare perchè ha quei cerchi, più evidenti appena sopra le foglie….queste sono piante carnivore…..e papiri..e felci……ma sono troppe per poterle ricordare tutte.

Siamo immersi in questo paesaggio incantato..l’intreccio delle foglie di piante diverse che crescono vicine, e dei rami che scendono dall’alto, i pochi fiori nascosti nel verde, la fantasia con cui l’acqua si adatta a ciò che incontra per la sua strada..si increspa addosso ai massi, precipita dalle pareti in mille rivoli, quando è tranquilla gioca a catturare e riflettere le immagini.

Gustiamo il silenzio accompagnato dal rumore dell’acqua e dal richiamo di qualche uccello. Arriviamo a un bivio: la piscine nera e la piscina blu. Da una parte il sentiero sale, mentre dall’altra prosegue in piano: andiamo avanti verso la piscine nera. Il ruscello si incunea fra le pareti che si avvicinano… e all’improvviso ecco uno specchio d’acqua scura, anzi due fra loro comunicanti, alimentati da diverse cascate. E’ la piscina nera…le rocce le si chiudono sopra lasciando al sole solo una porzione di spazio per illuminarla coi suoi raggi.

In alcuni punti l’acqua si infila sotto alla roccia come in piccole grotte. In questo punto così racchiuso l’acqua scroscia in maniera forte e sorda. Ci fermiamo un poco, ci sediamo, facciamo qualche foto e Giangi racconta che quando era a Ihosy veniva qui a passeggiare per meditare

Torniamo indietro salendo e scendendo sui grossi massi per arrivare dall’altro lato del ruscello e passiamo sotto una architrave naturale, un ramo di un albero caduto. .

Al bivio decidiamo di andare alla piscina blu ma il percorso è un po’ faticoso. Elide ha il piede dolorante per una caduta fatta a casa il giorno prima della partenza, e decide di fermarsi: si siede e ci aspetta.

La piscina è davvero azzurra con riflessi verdi e turchese..ma la cascata è spettacolare: l’acqua scende dentro un canale di roccia levigata e squadrata che si raddoppia specchiandosi nella piscina. Prima di lasciare il parco vediamo (e riusciamo pure a fotografarli) anche due uccellini coloratissimi, e i lèmuri!

Uscendo dal parco vediamo lo spettacolo delle donne (non solo donne) che fanno il bucato nel fiume.

Torniamo in città perchè Giangi vuole incontrare un confratello col quale si sono dati appuntamento. Lungo la via dove abita ci sono i baobab, altra rarità che esiste solo in Madagascar, sia il modello liscio che quello spinoso e piante grasse particolarissime. Il sacerdote ci accoglie con uno spuntino, poi lasciamo Giangi con l’accordo di tornare a prenderlo per il pranzo, e riprendiamo la visita del parco. Questa parte pianeggiante è l’altopiano di Horombe: qui la roccia si è disegnata in forme spettacolari. E’ una zona turistica e ci sono alcune diverse strutture alberghiere di stile occidentale. La pietra sembra emergere direttamente dalla steppa.

La Regina dell’Isalo è proprio sulla strada.

Svoltiamo a destra e imbocchiamo una via sterrata affiancata da formazioni bizarre, puntute come coni irregolari che si protendono verso l’alto oppure squadrate..

…ma la cosa più spettacolare è la finestra dell’Isalo. C’è anche una finestrina più piccola!

C’è tanto vento. E’ un paesaggio così incantato che lasciarlo è una sofferenza.

Ci fermiamo a vedere l’albergo occidentale di lusso costruito vicino alla regina dell’Isalo, coi fuoristrada parcheggiati sotto alle bandiere internazionali.

Sullo sfondo del massiccio, nei giardini curatissimi col prato all’inglese e con la ghiaia, ci sono dei baobab nani e delle statue malgasce.

All’improvviso appare in volo un uccello enorme bianco e nero a ali spiegate. Splendido.

Torniamo in città, o meglio alla periferia, dove abita il sacerdote per riprendere Padre Giangi e andare a pranzo.

Invece dopo esserci accomodati sui divani e aver chiacchierato un po’ tutti insieme, Giangi ci dice cha ha deciso di rimanere a pranzo con padre Felipe. Così noi altri andiamo in cerca di un hotely.

Ne scegliamo uno semplice, accogliente, dove mangiamo riso e carne di zebù, tutto buonissimo, a un prezzo irrisorio. Ci sono altri turisti, e parecchi gatti!

A questo punto torniamo a recuperare il Padre: dobbiamo infatti rientrare a Ihosy e poi proseguire per Fianarantsoa. Il sacerdote abita in una canonica: ha un piccolo cortile e un giardinetto. Proviamo a affacciarci sul retro dove vediamo delle piante particolari, ma ci sono dei cani che ci preoccupano..

Nel piccolo porticato davanti alla porta di casa c’è un tavolino con dei libri in francese. Erano del sacerdote che era qui prima di lui: Padre Felipe ci dice che possiamo prendere quello che ci interessa. Lasciamo una piccola offerta. Prima di partire entriamo nella chiesa, la prima che visitiamo qui. L’altare è costruito con un blocco di roccia e il tabernacolo ha la forma della palma del Madagascar.

Il congedo è sempre faticoso soprattutto per Padre Giangi, ma alla fine riprendiamo la strada e la sua ricchezza di vita. Le due fotografie della prossima pagina in realtà dovrebbero essere affiancate: la scena completa della famiglia era così! La bimba ride perché ci siamo fermati e Irene ha distribuito le solite caramelle.

Un’ora e mezza e eccoci all’allevamento. Sono all’incirca le 5. Mentre Giangi, Elide, Michel, renè e Jean Paul proseguono la riunione di ieri pomeriggio, ci godiamo un po’ di sole. Riprendiamo il viaggio a incontro concluso, circa un’ora dopo. Non lo so se non per il fatto che si sta facendo sera, il che accade solitamente attorno alle 6. Prima di proseguire per Fianara Padre Giangi vuole andare a salutare il vescovo.

Il vescovado qui è una cosa assolutamente spartana. Una costruzione a due piani affacciata su un cortile quadrato.

Incontriamo il vescovo: se non fosse per l’anello non si riconoscerebbe. Abbigliamento semplice, un uomo normale vestito al modo occidentale, persona sobria e mite. Scambiamo poche parole perché abbiamo ancora da tornare al carcere. Mentre lasciamo questo posto Padre Giangi saluta diverse persone: ha vissuto qui per un certo tempo.

Questa seconda visita al carcere è più angosciante della prima. Sono passate le 17.30 e quindi i carcerati sono già chiusi dentro ai cameroni. Non abbiamo modo di vederli.

Saliamo al posto di guardia per affacciarci e parlare loro. Da quassù si vede il cortile vuoto.

Dove ieri mattina c’erano i carcerati ora restano solo le ciabatte accatastate e due polli che razzolano davanti alla cancellata. La desolazione disabitata fa ancora più male. Giangi parla o meglio grida. La sua voce rimbomba e amplifica le sue parole (malgasce) di consolazione e incoraggiamento. E loro da dentro rispondono.

Racconta loro che abbiamo portato quanto ci avevano chiesto: il sapone, i rubinetti nuovi, altre stuoie. A questo punto si leva un canto all’unisono. Armonioso, commovente. Penso alle condizioni in cui resteranno stipati in quello spazio angusto ancora per tante ore..e non solo oggi..

Lasciamo le cose sotto al porticato di fronte all’infermeria e in silenzio risaliamo sul nostro pullmino.

A questo punto Julienne ci dice che il gasolio che abbiamo non è sufficiente per arrivare a Fianarantsoa. Primo benzinaio a secco …secondo idem…quando il gasolio scarseggia c’è chi ne fa incetta per lucrarci! Padre Giangi strilla parecchio e qualcuno parte a recuperare qualche tanica di gasolio.

Mentre aspettiamo, nonostante l’ansia dell’ipotesi di non poter ripartire stasera, ci godiamo la vita della città che sul far della notte, con gli ultimi raggi del sole, è frenetica: affascinante. Scopriamo che le api, gialle per di più, qui sono il mezzo a motore più diffuso. Passa anche un autobus di linea a porte aperte!

Le cose da fare qui in Madagascar sono davvero tante: il tempo ha un ritmo diverso, e sembra di vivere tre o quattro giornate dentro un solo giorno. Così anche stavolta viaggiamo di notte. Julienne ha una guida attenta e tranquilla, rallenta per schivare le buche e i veicoli del senso di marcia opposto che in ogni caso col buio sono più rari. Un po’ chiacchieriamo, un po’ riposiamo. Io mi accoccolo a volte a direttamente per terra, sotto il portellone in modo da avere il viso a altezza finestrino e potere alzare lo sguardo sopra il tetto del pullmino, verso il cielo.

Ceniamo in un centro abitato dove c’è la corrente elettrica, dettaglio non trascurabile, in un ristorante molto decoroso, dove ci sono altri vazà!

Ci fermiamo anche a recuperare la manioca che avevamo prenotato all’andata: è un villaggio e qui la corrente non c’è. L’uomo con la torcia da minatore sulla testa ci aspetta di nuovo. Le operazioni di carico non sono velocissime e Irene ed io abbiamo il tempo di allontanarci un po’ dalla strada per le necessità. Poco distante si sente della musica, probabilmente una radio alimentata a pile, e dietro le finestre la luce fioca di qualche candela. Ci passa anche vicino qualcuno, ma non riusciamo a distinguerlo.. E’ buio.

Ma quando anche i fari del pullmino si spengono, si accendono le stelle: enormi, nitide, così vicine da poterle toccare allungando la mano, e la via lattea! Somiglia proprio a una strada così affollata di luci da sembrare densa, come dice il suo nome…

Il cielo ci avvolge come un manto pieno di diamanti sfolgoranti che scendono fino ai nostri piedi. La notte più bella della mia vita.

Mercoledi, 30 luglio

La mattinata è dedicata all’associazione Miaraka Aminy che ci ha preparato una bellissima festa nella sede della casa famiglia, poco distante da quella di Rainay dove alloggiamo.

I ragazzi ci aspettano nel cortile: la casa è più piccola dell’altra, ospita 12 studenti, ed è strutturata con un solo piano, su due lati, a L, con le camerette che si aprono direttamente sul porticato che scorre lungo tutto l’edificio. Qui una parte dello spazio aperto, il cortile sterrato appunto, è dedicato parte all’orto. Fa freschetto, siamo sempre sugli altipiani….

Padre Maurice ci accoglie con un discorso al quale fa eco Padre Giangi.

Ci raggiunge il sindaco di Tsarafidy con la convenzione per la costruzione della scuola, che viene sottosctitta con grande soddisfazione di tutti, nella sala studio con i banchi nuovi dove Padre Maurice organizza delle ripetizioni. Come nelle grandi occasione, il momento della firma viene immortalato.

Nella organizzazione della giornata Maurice ha previsto l’incontro coi ragazzi, divisi fra alunni della scuola elementare e media, delle superiori, e gli universitari. Infatti oggi ci sono tutti gli studenti che sosteniamo tramite Miaraka Aminy e non solo quelli che abitano qui: sono venuti anche da Sonierama e Mahaditra, e ci sono anche i genitori. Ci siamo solo Elide, Aldo, Irene ed io: non padre Maurice, non Padre Giangi che potrebbe tradurre… comunichiamo in francese. E’ una cosa molto divertente incontrare direttamente questi giovani! Cominciamo dai 6 universitari che avevamo già conosciuto a Sonierama: sono tutti ragazzi, nessuna ragazza. Spigliati, curiosi, dinamici: dopo averli “interrogati” con le domande di rito, età, facoltà, famiglia, desideri eccetera nasce uno scambio naturale e spontaneo: ci chiedono se ora possono loro fare domande a noi!

Ci riflettono un’idea dell’Italia completamente lontana dalla realtà..qualcuno non sa nemmeno dove si trova sul mappamondo! Del resto anche noi in Italia non abbiamo in genere alcuna conoscenza della vita degli altri Paesi, e del Madagascar poi!

A conclusione dell’incontro ci scambiamo gli indirizzi email per rimanere in contatto anche a distanza.

Poi i ragazzi delle superiori. Poi i piccoli delle medie: entrano tremanti, forse pensano di dover sostenere un esame..sono timidi! Gli occhioni grandi e il sorriso che illumina i visetti scuri manifesta l’impaccio..anche perché conoscono il francese meno bene dei grandi, nonostante qui la lingua scolastica ufficiale sia il francese e non il malgascio per cui devono esprimersi sempre in francese. Bisogna vedere poi la qualità del francese degli insegnanti… Parlano a voce bassa…fanno tenerezza! C’è però una ragazzina sveglia, con due occhietti vispi e un sorriso smagliante che ci fa da interprete.

Intanto i ragazzi stanno cucinando: per l’ora di pranzo c’è una bella tavola imbandita piena di pietanze buonissime. C’è un pentolone pieno di riso, che è la base di ogni pasto e accompagna il companatico (il pane non c’è mai!). Sono stati già riempiti moltissimi i piatti. Si mangia in piedi modalità self service, ma per noi sono state preparate delle sedie. Anche perché dopo mangiato, ovvero mentre mangiamo, ci è stato preparato uno spettacolo di danze e sketch al quale assistiamo però, tranne l’inizio, solo noi 3 Biondo, perché Giangi e Elide si riuniscono con Padre Maurice e con i genitori e coloro che gestiscono la casa.

I ragazzi si fanno avanti a gruppetti: naturalmente i più grandi sono i più disinvolti ma anche i piccoli sono intraprendenti.

C’è anche chi cura la parte musicale e gestisce un lettore CD al quale sono state collegate due grandi casse collocate sotto il porticato. Ogni scena ha il suo sottofondo musicale sparato al massimo volume! Anche le due signore che gestiscono la casa ci offrono la loro performance!

I ragazzi si divertono moltissimo, e noi con loro. Sono talmente graziosi che riprendo col cellulare gran parte dello spettacolo.

Alla fine di tutto, riunione e spettacolo, ci salutiamo con il solito calore e affetto.

Tutti in piedi intorno al cortile raccolti per una preghiera. Portiamo con noi le creme, e il litro di olio di canfora suddiviso in tre boccette, che avevamo ordinato a Sonierama.

Poi Hanitra ci propone di incontrare delle suore italiane che abitano in città e che lei stessa frequenta. Entrati in casa sembra di essere improvvisamente di nuovo improvvisamente in Italia. Ci accolgono con the e pasticcini! Sono in tre. Una di loro è anziana e presto rientrerà in Italia, a Caltagirone. La loro richiesta è un aiuto per la costruzione di una sala per i ragazzi nel terreno di fronte alla casa in cui abitano, Infatti il piano regolatore della città prevede che in quel terreno venga costruita una discoteca e questo allontanerebbe molto i giovani, e perciò loro vorrebbero porre in essere questa azione di contrasto. Giangi risponde che anche UnicoSole fa una grande fatica a reperire i fondi per portare avanti i proprio progetti, e che questo richiede un impegno personale da parte di tutti: chiede ad esempio ad Aldo di parlare dell’Associazione a scuola, con gli altri professori e coi ragazzi e organizzare una raccolta, e a me di fare altrettanto coi colleghi dell’ufficio, e a Irene coi suoi amici. In ogni caso chiediamo di lasciarci il recapito. Ci mostrano anche la chiesa del convento e poi le grate che hanno dovuto mettere al secondo piano della casa per proteggere il balcone da cui sono entrati i ladri.

Rientriamo a casa. Irene si è comperata gli elastici piccini per farsi fare le treccine e le ragazze la pettinano..poi si scambia nomi e indirizzi coi ragazzi

Prendiamo nota di quello che dobbiamo portare per la cucina, la prossima volta, e poi prepariamo la cena: la maggior parte dei ragazzi è partita e sono rimasti solo quelli che devono fare gli esami. La casa è quasi vuota e a cena nel refettorio si apparecchia solo un tavolo.

Poi facciamo i bagagli: domani dobbiamo raggiungere la capitale per prendere il volo della notte e quindi dobbiamo partire presto.

Giovedi, 31 luglio

Partiamo: lasciamo la casa di Fianarantsoa con baci, abbracci e lacrime, soprattutto con Bruno e M.me Zoe, e gli auguri agli studenti per l’impegno imminente.

Padre Giangi viene con noi fino in città, poi ci separiamo perché lui resta e torna a Ihosy. Noi 4 e Michelle proseguiamo con Julienne.

Il viaggio sarà lungo perché rifaremo in un solo giorno quello che all’andata abbiamo fatto in due tappe.

Rubiamo le ultime cartoline incantevoli della vita quotidiana di questo paese meraviglioso.

Nemmeno partiamo e già ci fermiamo: facciamo tappa a Tsarafidy come all’andata quando era pomeriggio e pioveva: stavolta è mattino e c’è quasi il sole! Scopo della sosta è acquisire la documentazione da allegare alla convenzione, ma il sindaco ci tiene a tornare insieme alla collina del Liceo.

Prendiamo con noi sul pullmino il sindaco e raggiungiamo il luogo dove dovranno sorgere le nuove aule e dove qualche giorno fa Lorenzo aveva rincorso i bambini mentre calava la nebbia.

Il percorso è sempre lo stesso: scendiamo da una collina, attraversiamo il ruscello e risaliamo dall’altra parte della valle, seguiti come la settimana scorsa da uno sciame di bambini scalzi e sorridenti.

Arriviamo al pianoro della scuola: il terreno è già stato spianato!

Il sindaco vuole che le aule siano pronte il prima possibile, magari per l’inzio del prossimo anno scolastico. Irene gioca con i piccoli che vogliono essere fotografati per rivedersi come al solito nella macchina fotografica.

In lontananza vediamo gente che si dirige verso un mercato: il mercato del tabacco. Seguiamo la fila e andiamo a curiosare.

Poi riprendiamo il viaggio ma prima abbiamo il rito della distribuzione delle caramelle. Irene è diventata una professionista..e questa è l’ultima volta, per questo viaggio.

Attraversiamo a rovescio gli stessi posti visti all’andata. Anche se non è possibile ricordare ogni particolare a memoria, i luoghi sono ora familiari: sembra di riavvolgere un nastro…ovunque le fornaci di mattoni continuano a fumare. La gente continua a occupare la strada e a fare chilometri a piedi dritta come le statue, con le ceste piene sulla testa per arrivare ai mercati, a vendere o a comprare, e noi a strombazzare col clacson per farci largo.

A Ambositra ci fermiamo a ritirare i due grossi vasi di legno acquistati da Giangi e Elide nella bottega artigiana a fianco di Frere Jean: li portiamo alla capitale da Padre Noè e poi vedremo come siamo messi coi bagagli.. se li portiamo con noi entrambi stanotte o ne lasciamo uno a Giangi. La Madonna invece la ritirerà direttamente lui sulla via del ritorno.

Anche oggi comperiamo qualche ultimo oggetto di legno da portare in Italia mentre Aldo fotografa un bimbo che gioca con un camion di legno muovendolo con un bastoncino.

Pranziamo sempre qui a Ambositra, al Motel Violet, davvero grazioso, standard occidentali in tutto, compresi i bagni. Il pranzo è molto gustoso, prendiamo per l’ultima volta la carne di zebù (che è in tutto simile a quella di mucca), un dolce e il caffè. Il luogo è turistico, infatti nel locale ci sono tre ragazzi malgasci che cantano accompagnandosi con strumenti tradizionali. La melodia è piacevole e la band è attrezzata: compro il cd. Mentre risaliamo sul pullmino arrivano di nuovo le ragazze con le sciarpine di seta grezza..belle, colorate… comperiamo ancora. Gli ariary debbono pur finire, no?

A Antsirabe incontriamo i pousse pousse a trazione umana: stavolta in pieno giorno li vediamo bene. In questa città ci sono diverse industrie, la più importante è il birrificio Star che produce la birra THB per tutto il Madagascar. C’è anche l’ industria dell’ex-presidente che lavora nel settore dei latticini e degli olii alimentari.

Da qualche giorno mi è venuta l’idea di comprare due pouff alle bancarelle della paglia che avevamo incontrato all’andata. Non ci ricordiamo il punto preciso, ma di certo dobbiamo arrivarci finchè c’è luce perché al calare della sera le botteghe chiudono. Quando arriviamo il sole è già tramontato, alcune donne stanno già ritirando la loro merce e non ci si vede più chiaramente. In ogni caso facciamo un giro veloce e decidiamo quali acquistare.

Pensiamo di arrivare a Tanà, preparare i bagagli e poi andare a cena da qualche parte. Quando entriamo in città però non solo è già buio, ma incontriamo un ingorgo che ci blocca per un’ora. Sembra di essere a Roma nelle ore di punta. Fermi!

Arriviamo da Padre Noè che sono le 8. Per le 10 dobbiamo essere in aeroporto! Il Padre non c’è, ma c’è la suora che ci accoglie.

Comincia l’operazione di ricostruzione dei bagagli nella stanzetta in cui il primo giorno avevamo lasciato le valigie vuote e i primi acquisti: 23 kg x 8, due bagagli da stiva ciascuno, più il bagaglio a mano di 10 kg. A parte i nostri pochi vestiti abbiamo da collocare le cose di artigianato, personali e dell’associazione. E non è poco!

Intanto arrivano Franza e Nirina con i bambini di Hanitra e Haja. L’dea sarebbe stata quella di cenare insieme, ma non è proprio possibile con quella montagna di cose da sistemare. Così li salutiamo velocemente e ripartono.

Prepariamo un bagaglio alla volta e Elide, esperta dello strumento, lo pesa con la bilancia manuale. Questo fino al bagaglio numero 7, perché il numero 8 è il grosso orcio di legno. Elide pensa di metterci dentro una grossa pietra acquistata al mercato della digue tutta imballata, che pesa parecchio, così che il volume dell’oggetto non ci rubi la franchigia del peso. Arrivati a casa scopriremo che la pietra ha spaccato in due il suo contenitore…

Intanto colloco le tre boccette di olio di canfora nella valigia da imbarcare, avvolgendole nei vestiti. Una in particolare in una pesante tuta pigiama rosa di Irene.

Tutto pronto alla soglia delle 10, ci cambiamo e ci precipitiamo in aeroporto. Qui ci aspetta l’impresario che si occupa della manutenzione della casa di Fianara e che aveva pranzato con noi la domenica della festa. Ha portato a ciascuno di noi un regalo..siamo così preoccupati del check in che lo trascuriamo un poco e lo salutiamo molto velocemente, a dispetto della sua gentilezza. Ed infatti alla consegna dei bagagli la signorina di Air France è intransigente 23 kg, non uno di più. Alcune valige sono troppo pesanti e dobbiamo quindi riaprirle per ridistribuire il peso. Senza più ricordare cosa c’era in mezzo prendo il pigiama rosa di Irene e lo trasferisco in un bagaglio a mano. Come Dio vuole i 7 bagagli 23 kg precisi e l’ottavo diverso si avviano sul nastro di imbarco. Almeno così pensavamo.

Mentre passiamo i controlli personali Irene viene fermata per liquido sospetto nel bagaglio ma i controllori non lo rinvengono. Ci sediamo nella sala di attesa, una sola per tutto l’aereoporto: dobbiamo aspettare l’una. Mangiamo qualcosa al bar e quando ci sediamo Elide e Irene vengono chiamati per il controllo dei bagagli che credevamo fossero stati imbarcati. Invece sono lì, poco distanti da noi. Apriamo nuovamente le due valigie incriminate: tutto regolare. Ci accomodiamo di nuovo e di nuovo Elide e Irene vengono chiamate…non avevano registrato di aver effettuato il controllo!

Finalmente viene il momento di imbarcarci. Come all’arrivo, ci avviamo sulla pista a piedi. Sotto l’aereo ci sono altri banchetti del controllo: fermano praticamente tutti i passeggeri uno per uno e fanno aprire il bagaglio a mano. Il mio è pieno di pepe dell’associazione.. mi viene la tremarella. Riesco a passare senza essere notata, salgo le scalette dell’aereo e..buonanotte.

All’arrivo a Parigi ai controlli in ingresso le signore rinvengono un oggetto misterioso nella lastra del bagaglio di Irene..e cominciano la caccia. Solo a questo punto mi rendo conto…e mi ricordo di cosa si tratta! Provo a allungare la mano nella valigia e spiegare…ma le signore sono furiose. Ci trattano come fossimo terroriste! Trovano la boccetta, ci sgridano e la buttano. Richiudiamo la valigia come capita: rischiamo di perdere l’aereo per Milano, corriamo al gate e troviamo Aldo e Elide preoccupatissimi per averci perso.

A Parigi fa caldo e fa ancora più caldo quando arriviamo a Milano…

Durante il viaggio di ieri (era solo ieri?) ripercorrendo la RN7, nastro del nostro viaggio, avevo cercato di trarre un bilancio di questa esperienza. Di decidere quali sono stati i momenti più belli e importanti ripercorrendoli con la mente…Manarinony…Andoharanomaitso…Ihosy..la casa famiglia…i ragazzi di Miaraka Aminy…ma è stato un tempo troppo intenso, come aver vissuto il tre volte. Non ero riuscita a scegliere. Ed ora che sono in un altro pullmino molto più confortevole dell’altro, mi stupisco di non avere più davanti agli occhi quelle colline rosse, le risaie a terrazza, le strade affollate di gente scalza o poco calzata (al massimo con le infradita) che si affatica per vivere, in condizioni di povertà e disagio. Eppure non smette di sorriderci.

Ecco: è proprio il sorriso alla vita il bilancio di questo viaggio.

Immagini collegate: