Come sapete. Padre Giangi è in Madagascar con Mattia, giovane neolaureato in diritto internazionale, che ci ha riportato le impressioni del suo primo viaggio.
Fianarantsoa, 18/11/2015 08:25 (orario locale)
Cari amici,
vi scrivo da un luogo speciale, un luogo che voi tutti conoscete e che un po’ ci appartiene: la casa famiglia qui a Fianarantsoa.
Io e Giangi siamo approdati sull’ “isola rossa” da ormai cinque giorni e pare conveniente “tirare le fila” di quelle che sono le prime impressioni, visto che son già numerose. I ragazzi della casa son tutti a scuola e in un attimo di vera quiete mi concentro ripercorrendo i momenti più salienti.
Cominciamo col dire che lo sconveniente da viaggio non è mancato; arrivati ad Antananarivo dopo una lunga – ma direi comoda – attraversata del Mediterraneo e dell’Africa tutta, i nostri bagagli a stiva non erano giunti a destinazione. A tutt’ora uno (il mio) manca e non si sa se è stato bloccato a Parigi, a Nairobi o altrove. Ciò, se non altro, ha prolungato di un giorno o due il nostro alloggio nella capitale.
La capitale è immensa e caotica, per chi la conosce e ci viene da un po’ credo sia sostanzialmente la solita Antananarivo, coperta di una nebbiolina di polvere e fatta di contraddizioni. E’ però anche il luogo del turismo, la zona dove i malgasci sanno un po’ di francese e inglese e soprattutto la porta di quella collina che Padre Pedro ha abbellito con la sua comunità.
Siamo stati ospiti da loro domenica 15, in particolare per condividere il momento della S. Messa domenicale… Padre Pedro non c’era, al suo posto un sostituto confratello francese.
Giangi ha concelebrato predicando in malgascio. Un’emozione forte vedere tutti quanti pregare, danzare, cantare a cori alterni, ma sempre e anzitutto nel nome di Dio. Loro, Dio, lo sentono vicino e te lo dicono. Moltissimi sono bambini o giovani della mia età, tutti rigorosamente vestiti con colori sgargianti quasi a preannunciare la gioia di quegli attimi. “Qui non si guarda l’orologio durante la liturgia, qui si concentra tutto il vivere quotidiano della settimana, ci si prepara in funzione della domenica… E la domenica pomeriggio? Si riposa sotto una pianta”, dice Père Giangi, come lo chiamano qui.
Già da questi piccoli cenni si può capire quanto sia distante la vita qui dalla nostra, non tanto per i kilometri che le separano ma per il modo, l’approccio, i valori, le idee, di una e dell’altra. Mi piace parlare di differenza, non di “migliore” o “peggiore”, “giusto” o “sbagliato”. Per approfondire questa cosa bisognerebbe fare quattro chiacchiere con Bruno, ex segretario del Comitato Nazionale per l’Osservazione delle elezioni, amico di vecchia data di Giangi. Noi abbiamo avuto la possibilità di farlo domenica a pranzo.
Poi via… Marcia verso sud destinazione Ambositra su un furgoncino multiposto che guida Haja.
La strada nazionale, oltre a rimanere l’unica, mi pare di capire che non sia stata migliorata negli anni. Tra un paesaggio incantevole e l’altro, troviamo alcuni lavoratori pubblici che sistemano le zolle, ma sono varie le zone dissestate ed Haja deve andare cauto. Con noi tre sul furgone è venuto anche René.
Su questa strada vale davvero la pena fare qualche tappa: chi ti vende l’ananas, chi il miele, chi le “bons bons” (che poi son frittelline fatte di farina), chi ti mostra la produzione di oli essenziali a 1600 metri di altezza… Noi, naturalmente, non ce ne facciamo scappare una.
E’ l’occasione anche per riposare un po’. Il clima è davvero caldo, da quando siamo qua ha piovuto solo una volta, bruscamente, la sera. Se non fosse che siamo nella stagione delle piogge non avremo visto nemmeno quell’acqua.
Dopo la sosta notturna ad Ambositra (alberghetto di tutto rispetto dove eravamo possibilmente gli unici clienti), si va alla volta di Fianà… Ed eccoci qua. E’ in questo tratto che abbiamo avuto alcuni degli incontri più rilevanti. Siamo infatti passati dalle scuole medie e dai licei dei paesi di … , scuole parzialmente sostenute con le risorse di UnicoSole.
Il direttore della scuola media ci ha accolti e mostrato le classi, che variano dai 45 ai 64 alunni l’una. Il problema è rappresentato dalle lavagne: si puliscono difficilmente perché sono state utilizzate a lungo. In alcuni casi (le classi che non ricevono finanziamenti), anche i tetti sono fatiscenti e presentano fori più o meno grandi. I soldi per sostenere gli stipendi dei professori non abbondano, ma chi riesce ad accedere a questa scuola è felice di studiare. Giangi mi chiede di parlare un po’ in inglese, allora mi destreggio in qualche parola che possano capire. Non capiscono comunque, ma si fanno due risate. Sia io che Giangi salutiamo ogni classe dispensando il consiglio di studiare con costanza, di ambire ai propri sogni senza però perdere di vista il bene del Paese, di cimentarsi nelle lingue perché sono fonte di comunicazione con il mondo. Ringraziano e salutano con occhi stupiti.
Al liceo la situazione è simile; oltre al preside ci ha accompagnato di classe in classe il sindaco della città. Per giungere al liceo abbiamo percorso un sentiero sterrato che attraversa qualche villaggio. La prima classe che abbiamo trovato sta facendo educazione motoria e la loro “palestra” è un campo di erba, sabbia e terra. Ci mostrano orgogliosi qualche corsetta e qualche esercizio. Nelle altre classi si impara malgascio, matematica, fisica, inglese. Le formule sembrano ben fatte. Anche qui, alcuni tetti son poco stabili. I banchi che dovrebbero “ospitare” due studenti vengono occupati da tre. I numeri simili ai precedenti: 50/60 alunni per classe.
Nel congedarci il sindaco ci ha portati nel suo ufficio; parliamo di acqua col presidente del comitato delle 11 fontane dei villaggi circostanti. Perché non ne sono state costruite altre nel corso di tre anni? Il comitato si deve trovare e deliberare di costruire altre fontane perché la struttura del bacino lo permette.
Infine, le possibili migliorìe non mancano anche qui nella casa: l’acqua non viene attinta dal pozzo perché la gestione è ritenuta troppo complessa, in cucina vi sono alcune perdite e le finestre necessitano piccole riparazioni. Gli abitanti della casa sorridono dicendo che si impegneranno. Noi speriamo che sia così, ma a volte si tratta di disporre di risorse che essi stessi non hanno.
Il presidente di Rainay sembra propositivo, i ragazzi anche. Sanno che quella è la loro dimora ora. Incoraggiamenti ne stiamo dando (io più che altro seguo quello che Giangi con la sua esperienza ha da consigliare), certo è che serve pazienza e collaborazione.
Oggi si va a Ioshy, ci attenderà un altro bel carico di lavoro laggiù… Bello in tutti i sensi, credo.
Ihosy, 25/11/2015 06:38 (orario locale)
Cari amici,
ci troviamo in un internet point della città e, non avendo alcuna connessione nella casa dove abitiamo, è ora l’occasione per farvi pervenire qualche news.
Siamo giunti mercoledì 19 novembre qui a Ihosy e tutti i nostri dubbi su come fare a preparare da mangiare, conservare il cibo e simili si sono dissolti nel momento in cui René, Jean-Paul e le loro famiglie ci attendevano sul porfido della casa societaria, da cui si intravedeva una tavola imbandita di ogni bene. I giorni vanno avanti, le cose non cambiano… Siamo serviti e riveriti. Inoltre, è vero manca internet, ma acqua e corrente fanno il loro mestiere. Devo anche ammettere che staccarsi per un po’ da ogni contatto con il resto del mondo è una buona disintossicazione, soprattutto di questi tempi.
Ho iniziato a insegnare inglese in un liceo cattolico comprensivo di più di 1300 studenti. La sensazione iniziale è che il livello di inglese generale è parecchio basso (più basso di quello in Italia, tanto per intenderci). Tuttavia, gli studenti sono molto rispettosi e accettano volentieri la sfida di avere un “vazaha” (uomo bianco) nelle loro classi, il quale non solo parla una lingua che non è malgascio, né francese, ma lo fa proponendo questioni di politica, costumi, diritti del Paese in cui sia loro che lui si trovano. Finora ho insegnato solo un giorno, ufficialmente, seppur in ben quattro classi diverse e per varie ore di seguito. Avrò modo di farmi un’idea più approfondita pian piano e vi terrò aggiornati.
Ultimo punto, e mi permetto di dare particolare enfasi… Sabato sera sono stato ospite speciale in una discoteca, la discoteca del Madagascar, una discoteca fatta di una tettoia e tante persone sottostanti che cantano pregando. E’ qui nella nostra casa, questa discoteca. E’ il nostro svago, ma anche il modo più bello per riunirci. Una torcia e un tavolino che diventa un altare son tutto l’arredo che si trova. Sono andato lì, senza nemmeno sapere cosa mi aspettasse. Tutti gli operai e i nostri conviventi della casa erano riuniti per accogliermi. Ho pregato, parlato e in parte danzato con loro.
La mattina dopo, in parrocchia prima della S. Messa, stessa scena con centinaia di bambini che non smettevano di circondarmi e osservarmi mentre attendevano che dicessi o facessi qualcosa. Non mi ricordo nemmeno cosa ho detto o fatto, ma son quasi certo che quel pomeriggio, a casa dalle loro mamme, dai loro papà e dai loro fratelli, hanno riferito l’evento straordinario di trovarsi con quel ragazzo europeo che “non è nemmeno un prete”. Quel ragazzo vorrebbe solo ringraziarli tanto, anzi infinitamente, loro insieme con tutte le persone che non smettono di farlo sentire accolto come parte di una famiglia-comunità.
Per ora, che in malgascio non mi so ancora esprimere e cerco di cavarmela con gli sguardi, queste cose a parole le dico a voi.
Ihosy, 07/12/2015 08:20 (orario locale)
Cari amici,
Come va lì? Vi parlo sempre di qui, di noi, ma mi piacerebbe che condivideste anche voi qualcosa su come prosegue la vita a Bergamo e dintorni. Non mi si dica che non c’è niente di nuovo. Siamo a dicembre, il Natale si avvicina e credo che più o meno tutti voi abbiate eretto un albero o decorato la casa con presepe e lucine. Mio zio Gianni l’avrà sicuramente fatto in maniera strepitosa, come al solito.
Qui quell’atmosfera sembra così lontana… (ed è la prima volta per me non sentirla)
Eppure è dicembre anche in Madagascar e anche se quasi tutti sono cattolici ma nessuno sapeva del Giubileo straordinario fino a ieri sera quando Giangi l’ha detto, anche in Madagascar inizia questo Anno Santo della Misericordia. Non aggiungo altro, altrimenti mio padre mi manda i messaggi che sto iniziando a parlare come i missionari. Vero, non spetta a me farlo, ma sono convinto che, per credenti e non, questo evento sia un’occasione importante soprattutto pensando a situazioni come quella malgascia, di povertà.
A volte mi verrebbe persino da parlare di “miseria”, più che altro per l’arretratezza che si vive in certe circostanze. Vi accenno questa: giovedì è arrivato un furgone da Fianarantsoa che ha scaricato il frigor ed altri pacchi dell’ultimo container giunto a Tamatave. Finalmente possiamo mettere i salami dell’Angelo al fresco! Peccato che si risolva una cosa e si debba già pensare ai problemi di un’altra: il furgone, che era pure nuovo, si è rotto e si è dovuto fermare fuori Ihosy quasi tre notti e qualche ora mattutina in attesa che venisse portato il pezzo di ricambio all’autista-meccanico. Di pezzi, pian piano, ne sono arrivati più di uno, ma ce n’è voluto prima di azzeccare quello giusto! Se non altro, Hantra (moglie di Haja) e una sua cugina, che erano sul furgone perché avevano gestito loro il transito, ci han fatto compagnia qui alla casa da quella sera alla mattina dopo.
Altro esempio: ieri sarebbe dovuta essere la volta di Sakalalina, paese di Padre Rogér e sede di un ospedale coordinato da italiani. Niente da fare; la sera prima ha tempestato e i torrenti che attraversano la pista (non esiste strada asfaltata per andare a Sakalalina) hanno reso impercorribile quel tratto. Cambio programma: io sono rimasto a Ihosy e Giangi è andato a celebrare a Ivandrika
Ora, presi di per sé questi eventi personalmente non ci mettono molto a repentaglio, ma si pensi a chi lavora, a chi si può sentire male e sia vie che mezzi di trasporto sono, appunto, al livello della “miseria”.
Tuttavia, il popolo del Madagascar è sereno e continua farti sentire uno di loro. Si aspettano più ore, si farà più fatica per qualcosa, ma la si farà insieme.
Tornando alla tempesta, il vero danno è stato fatto soprattutto all’agricoltura (un po’ come quando da noi viene la grandine d’estate e distrugge i tralci di vite). Sui terreni della società sono state ammaccate tutte le radici di manioca piantate un anno fa (le più grosse). Anche carcadè, mais e sfortunatamente molte papaye ne hanno risentito. Le papaie, con istinto quasi umano, han cercato di difendersi “buttando fuori” una schiuma bianca dal frutto, ma il frutto, ora, non è più buono. Due tra le foto che allego mostrano questa reazione.
Stamattina, alla casa, un bel numero di donne è arrivato per pelare le manioche sradicate. Sarà difficile venderle poiché la stagione delle piogge è stata decisamente favorevole al riso e in pochi necessitano di alimenti “supplementari”.
Manioca a parte, l’acqua ha “risvegliato” un sacco di insetti, tutti innocui. Mangiamo, e faccio lezione ai ragazzi della casa, invasi da cavallette, mosche, e altri minuscoli volatili, ma in un certo senso è una fortuna… Da noi, con l’uso di tutti i pesticidi, animaletti simili non si possono più trovare nemmeno tra i campi.
Anche questa settimana è super-piena. Ai terreni arriveranno una trentina di nuovi operai, i quali sommati a tutti quelli che in varia natura ruotano attorno a campi, cascine e pollai dei progetti avviati, vanno a costituire un numero che supera i 230. A René e Giangi il compito di “farli rigare”. Si sta inoltre valutando l’assunzione di un nuovo trattorista, perché i due che sono impiegati al momento non sono sufficienti a coprire il lavoro di 3.000 Km da arare (si inizia alla mattina alle 6 e si spegne il motore alle 9 di sera, tutto con gran dedizione!)
A scuola io avrò il doppio delle ore di insegnamento perché quella attuale è la settimana di ripasso complessivo e devo dare una mano agli studenti a far fronte alle (parecchie) lacune “tirate dietro” in questi primi mesi. L’argomento che sto affrontando, dopo quello delle presentazioni e del tempo atmosferico, riguarda i viaggi; ma non è altro che parlare di sogni, essendo praticamente nessuno stato mai oltre i confini malgasci (se non addirittura di Ihosy). A loro, comunque, credo piacerà.
Un pensiero speciale va alla mia nipotina Sofia e a tutti quei bambini che tra pochissimo aspetteranno sulle loro porte l’arrivo di Santa Lucia. Spero che l’asinello porti in giro pochi sacchi di carbone quest’anno, così i bambini mangeranno i dolci e qui si potrà ancora accendere il fuoco per bollire l’acqua e il riso.
UN NATALE PARTICOLARE DENTRO LE MURA DEL CARCERE DI IHOSY
Ihosy, 26/12/2015 09:30 (orario locale)
Cari amici,
Anzitutto, buon S. Stefano a tutti!
Ho voluto dare un titolo a questa nuova relazione sì da rendere già l’idea di cosa andrò a descrivervi.
Avendo sentito anni fa i racconti toccanti di alcune persone che erano state nel carcere di Ihosy, da un po’ punzecchiavo Giangi chiedendogli di portarmici. Ebbene, non poteva scegliere cosa migliore: far visita in quel posto il giorno di Natale.
E’ stato un Natale intenso, il nostro, uno di quelli con la N maiuscola, ma anche “aspro” per via di ciò che il contatto con quella realtà lascia.
Siamo arrivati ai cancelli a metà mattinata, dopo aver già celebrato una Messa al terreno nei pressi dell’incrocio di Sakalalina. Jean-Paul aveva provveduto verso le 8 di mattina a far pervenire i sacchi di riso, l’insalata, i 70 kili di carne e le 25 stuoie che Giangi acquistò il giorno prima per un totale di 350 euro. Erano una sorta di dono per quei “disperati”.
Gran festa ci è stata fatta non appena varcata la porta di ferro: direttore e vice-direttore ci hanno accolti e portati all’altare dove avremmo celebrato la seconda Messa del giorno (terza compresa quella di mezzanotte a Marofivango). Ho posto su quel tavolo le statuine del presepe che mia cugina mi aveva raccomandato di usare a Natale per sentirci vicini. Tutti i prigionieri ci salutavano, chiedevano di noi, di quello che eravamo lì a fare ed erano entusiasti. Un piccolo gruppo di loro formava la corale che ben ha animato la Liturgia natalizia. Ma la percezione del degrado è giunta presto. Prima della comunione, un uomo è piombato a terra, probabilmente svenuto di stenti. Faceva caldo ed erano tutti ammassati sotto un telo la cui ombra fingeva di dare sollievo. Qualcuno “giocava” a togliersi le cimici dai vestiti.
Doveva essere il momento del pranzo quello dopo la celebrazione… finalmente un pranzo diverso dalla solita ed unica manioca che i “colleghi” del campo penale forniscono. Ma non è stato così; riso, insalata e carne erano stati disposti dalle 8 nei pentoloni, tuttavia la fiammella che li riscaldava era talmente fioca che neanche in tutto quel tempo riusciva a far bollire l’acqua. Motivo: mancava la legna! Manca sempre la legna in carcere; manca alle famiglie “libere” e che lavorano, figuriamoci nel “dimenticatoio umano”. L’unica cosa che si dispone tra le sbarre è un po’ di segatura regalata da una falegnameria che sorge lì accanto, ma di fuoco ne produce davvero poco. Giangi ha allora dato dei soldi per andare a comprarla: è arrivata in tronchi da spaccare. Un addetto ha preso la falcetta e via, colpo dopo colpo cercava di ricavarne dei pezzi: doveva far veloce perché eran già le 14 e regola vuole che alle 17 tutti i detenuti vengano chiusi nelle loro stanze senza possibilità di uscire fino alle 8 del giorno seguente. Ad ora, non sappiamo ancora se ce l’hanno fatta a cibarsi prima del “coprifuoco”. Miseria su miseria. Ma non è tutto.
Le stanze: 20 persone nella prima, 34 nella seconda, 94 nella terza, 64 nella quarta, 34 nella quinta, 7 minori nella sesta e 5 donne in un’ottava che rimane isolata dal resto del complesso. La condizione internamente a quelle pareti è sconvolgente: si dorme ammassati e rannicchiati perché non c’è spazio per distendere le gambe. I muri sono “pieni stinchi” di macchie di sangue. Ci chiediamo come mai. Risposta: nidi di parassiti sono ovunque e per tentare – invano – di liberarsene, vegono schiacciati con le dita provocando quello spettacolo terribile che pare essere la copia e l’antonomia di un allegro quadro puntillista. Su ogni porta si leggono delle scritte: tot sono i detenuti in quanto imputati, tot i condannati e tot (pochissimi) in attesa di un giudizio dalla Cassazione. Impressionante la sproporzione: la stragrande maggioranza è rappresentata dagli imputati, ovvero coloro in attesa di un giudizio definitivo! Son lì perché sospettati ed indagati ma non confermati nella loro colpa.
Veniamo a storie concrete: parliamo di questo con i 7 minori…
< Perché sei qui? >
< Perché ho rubato un bue! >
< E perché lo hai fatto? >
< Perché sono stato preso dal demonio! > Nemmeno il coraggio di dire che si ruba per fame.
< E tu? > …
< Mio fratello ha ucciso e non avendolo trovato hanno messo qua me! >
Spero di non aver capito bene ma la mia speranza è un’illusione.
Arrivano le stuoie; per sicurezza le facciamo ricontare: son 27, dicono. Allora via con la ripartizione per stanza… Ma c’è stato un errore di calcolo, erano seriamente 25. Si litiga per un pezzo o in meno di paglia.
Cos’altro manca qui, oltre a cibo, legna per cuocere il cibo, stuoie, spazio per dormire? Uno dei più “senior” ci porta un foglio, si tratta di una richiesta scritta. Gessi per scrivere. Servono perché si è improvvisato maestro ma non può insegnare nulla senza gessi. E poi, sapone… le donne chiedono soprattutto sapone.
Non parliamo delle pentole: per quasi 260 persone devono essere grandi e funzionanti. Quelle che ci sono – nessuno le ha più sostituite dall’ultima volta che le ha portate Giangi – sono erose sul fondo. Intorno AI 400 euro è il prezzo di ognuna: un anno di stipendio medio malgascio. Ma i carcerati non lavorano e pochissime famiglie li sostengono. Dove si troveranno i soldi per comprarne sei che ne servirebbero?
Nel carcere non manca la piaga delle malattie. Ci imbattiamo in due tubercolotici che paiono usciti da Auschwitz – non cedo di esagerare. Si vedono solo pelle e ossa. I due hanno in mano pacchi di medicine. Ci riferiscono: < Lo Stato ci passa le medicine, ma senza cibo come mai potranno guarirci? > … Già, quelle bombe a stomaco vuoto finiscono per fare più male che bene. E intanto le malattie dilagano.
Qualche gallina ruspante vaga per la zona dei rifiuti. Non se la possono mangiare perché è del direttore. Tradotto: il carcere è anche il pollaio del direttore. Bestie più grandi e più piccole condividono gli stessi spazi e lo stesso abbandono.
Mi approcciano uno ad uno quei ragazzi; mi chiedono soldi e mi trovo nel limbo tra il mettere una mano nel marsupio e il trattenerla. Se li do a qualcuno, non posso non darli a tutti gli altri. Se li do alle autorità carcerarie, verranno davvero usati per i prigionieri? E mi torna lo stesso pensiero in merito a quelle due o tre banconote che ho ficcato nel cesto dell’offertorio.
Ce ne andiamo e promettiamo di ritornare. Sull’angolo dove svoltiamo in fondo alla strada ci sono due bellissimi edifici a destra, i più moderni della città, Bank of Africa e BFV-SociétéGénérale, mentre a sinistra il Tribunale. E’ il paradosso, o forse l’ingegno, della crudeltà.
A tavola, avanti a un po’ di riso e carote, faccio fatica a dire una che sia una preghiera. Mi mancano le parole ed è la prima volta che è successo qua. Anche il pomeriggio avventuroso in moto per la visita alla centale idroelettrica non è bastato a ridare normalità a quello che è e credo rimarrà il Natale più particolare della mia vita.
Durante i viaggi in Madagascar è possibile approfittare di un paio di giorni per godere delle bellezze di questo magnifico Paese. Mattia ce lo racconta con parole e immagini
Ihosy, 04/01/2016 07:25 (orario locale)
Cari amici,
Buongiorno a tutti da parte mia e di Giangi,
E’ giunto il momento di “rendicontare” alcune cose, e ce ne sarebbero davvero molte, ma provo a riassumere le principali in una specie di “flashback” a partire da oggi risalendo fino al dopo Natale.
“Tratry ny taona!” è la frase simbolo di questi giorni di inizio 2016. Tutti se lo dicono e te lo dicono ad ogni incontro. Significa “buon anno!”
E allora, come un corriere d’oltreoceano, trasmettiamo a voi queste parole… “Tratry ny taona, amici!”
Alcuni ancora non lo sanno, ma dal 30 dicembre al 2 gennaio, Giangi ed io siamo stati nei pressi di Tulear…..
Il viaggio su un taxi-brousse pubblico ci ha visti attraversare alcune meraviglie quali la catena dell’Isalo da cui si scorge l’imponenza di grandi canyon, l’omonimo parco nazionale – lasciato quasi deserto dai turisti ma sempre affascinante per le sue rocce multicolori e il “saluto della Regina” –, la foresta spinosa nei pressi della città di destinazione.
Arrivati, via altri 25 km su un taxi privato per giungere a Sarodrano, villaggio marittimo dove il genovese Andrea da anni gestisce un piccolo gioiellino di hotel fatto a palafitte sulla sabbia e sprovviste di acqua corrente, elettricità, internet e quant’altro di simile si possa immaginare. Andrea non era presente poiché al momento si trova in Italia, ma una famigliola di guardiani ci ha accolti con festa e cibo, e per tre giorni non ci ha lasciato mancare nulla.
Il 31/12, giorno seguente all’arrivo e ultimo giorno dell’anno, è quello che amo ricordare di più. Alle 4.30 eravamo già in piedi per la famosa tratta in piroga verso Nosy Ve, vero e proprio piccolo paradiso terrestre. Il fratello del guardiano e un amico ci avrebbero guidati: sono esperti pescatori loro o, come li chiama Giangi, “artisti”. Il vento era favorevole e il mare vellutato, ecco allora che la piroga partiva a colpi di remi. Stavamo seduti in fila indiana, ma i due artisti del mare non temevano di alzarsi e spostarsi sui bracci del mezzo nautico per gestirlo. La svolta cruciale è stata la messa in azione della vela…
< Prendi questo laccio! Annodalo > < Preso! Ora tu tira di là! > < Va bene, ci sono, lascia andare un po’ in basso che ‘mettiamo la quinta’! > < Così, così! Gira il timone a destra! > < Guardate, ci sono i delfini! >
C’erano per davvero i delfini, e in quella posizione li avvistavamo benissimo. Stupendo anche lo scontro tra acque dolci provenienti dal fiume Onilay e le acque salate del Canale del Mozambico: una lotta naturale che dà luogo nello stesso fazzoletto di spazio al contrasto tra verde smeraldo e blu oceano, sotto lo stesso celeste del cielo limpido; è il tripudio del terzo colore primario.
Dopo circa un’ora e mezza sopra il regno dei pesci si intravede la riva ambita. Occorre un’altra mezz’ora per toccarla con la prua e, una volta lì, a stento ti capaciti di tanta bellezza e varietà di flora e fauna. Lascio alle foto che allego il compito di descrivere visivamente gli stormi di peroqué, gli aironi bianchi e le relative uova, perché ogni commento sarebbe superfluo.
Pic-nic a base di pesce e rientro a Sarodrano… Guarda un po’ chi si vede? Zidane!…. Ci ha mostrato la nuova casa in fase di costruzione: la vecchia è stata sommersa pochi metri più avanti dalla sabbia. Quel tratto di spiaggia pare un vero e proprio deserto del Sahara: numerose sono le dune che come nomadi si trasferiscono in base alla direzione del vento da un’area all’altra.
A parte la visita un po’ fuggitiva alla città di Tulear – perché i punti di attrazione non sono moltissimi –, l’ultimo giorno trascorso a “pieno” sulla costa è stato significativo soprattutto per la serata in compagnia della sorella di René e della sua famiglia allargata. Mi ha colpito il fatto che quattro ragazzi universitari abbiano perso di proposito i mezzi di trasporto che li avrebbero riportati agli alloggi studenteschi per rimanere un po’ con noi e a quel punto si siano dovuti fare 6 km a piedi. Speriamo almeno che ricomincino il semestre brillantemente! Non è mancata una bella benedizione da parte di Padre Giangi.
Ultima questione: il giorno 27 dicembre sono stato presso le acque termali e la foresta di Ranomafana con Haja e i suoi figli. Anche lì, il paesaggio è spettacolare e unico di quella zona umida. Se dunque vi capiterà di venire in Madagascar e non siete ancora stati, ve lo consiglio! Si vedono lemuri e piante di tutti tipi!
Con questo vi saluto e vi auguro buona ripresa del lavoro o della scuola!